Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.
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giovedì 29 dicembre 2011

150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia

150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia


Terminato l’anno 2011, chiuderemo il presente Blog come era nelle nostre intenzioni, che, nato in Agosto del 2009, aveva lo scopo di raccogliere quanto possibile ed interessante circa l’importante anniversario del 150 ° della proclamazione del Regno d’Italia.
Esso rimarrà comunque aperto alla lettura, ma non più aggiornato se non eccezionalmente.

Dobbiamo scrivere che è stato un notevole successo divulgativo, totalizzando in 16 mesi, più di 20.000 visite con oltre 38.000 pagine lette. Soltanto a cavallo della settimana del 17 marzo 2011, festa nazionale, abbiamo avuto un picco di interesse di circa 2.500 visite con 4.500 pagine lette ! 

Il nostro rammarico semmai, va alle celebrazioni stesse, che non hanno smentito le nostre più pessimistiche previsioni sull’argomento.


Il 150° Anniversario dell’Unità Italiana infatti, falsificando la storia sin dal “titolo”, che vide l’Unità italiana raggiunta soltanto nel 1918 al termine della grande guerra, ben 57 anni dopo, il regime repubblicano attuale ha voluto allontanare forse per sempre lo il peso, l’ingombro e il terrore di dover ricordare l’operato e la gloria della Dinastia che l’Italia creò 150 anni fa, riunendo sotto la propria bandiera gli stati regionali precedenti. Casa Savoia.
Nessun erede di questa dinastia è stato ufficialmente invitato ad uno dei numerosi appuntamenti approntati dalle istituzioni, così come i Sovrani e le Sovrane ancora sepolti in terra straniera hanno potuto prendere il posto che gli spetta al Pantheon di Roma.
È stato così compiuto l’ultimo distacco, quello definitivo, tra l’attuale Italia degli scandali e delle crisi di valore, dall’Italia sacra della nostra gloriosa storia secolare, Il prossimo appuntamento infatti, il prossimo anno, tra 10 o tra 50 soprattutto, potrà “contare” esclusivamente su una popolazione “ripulita”, ignorante, non informata o peggio mal informata, che riconoscerà nell’Italia repubblicana, l’unica Italia che ha sempre conosciuto.

Personalmente è per me una grande sconfitta, peraltro prevista nel momento stesso in cui decisi di scendere in campo per combattere questo malcostume, ma sono orgoglioso d’essermi battuto al massimo delle mie possibilità, per lasciare almeno nei miei giovani figli un segno. Questo segno potrebbe un giorno riaffiorare nella loro memoria, e germogliare ! Speriamo davvero !!!

Cosa dire delle “molteplici”quanto disarticolate manifestazioni approntate su tutto il territorio nazionale ? Come abbiamo già scritto sopra, nessuno degli appuntamenti nazionali, ha visto la partecipazione ufficiale di un rappresentante di Casa Savoia, così come le Istituzioni stesse hanno preferito attendere in latitanza fino al 2010 inoltrato l’inizio delle manifestazioni stesse.
Queste infatti sono iniziate soltanto in concomitanza del 150° anniversario della partenza dei garibaldini da Quarto nel maggio del 2010. Certo dovendo occultare l’impegno ed i meriti di un piccolo Re Sabaudo,.non si poteva avviare prima il processo dei festeggiamenti, ricordando al popolo italiano i fatti del 1859 !
Meglio sono andate le decine di manifestazioni locali, soprattutto quelle delle località più piccine e radicate nelle loro tradizioni, come nel meridione del nostro Paese, che hanno tenuto in debito conto la storia, non il politicamentecorretto in voga oggi.
I generale però, nulla di istruttivo o utile a creare una forte identità nazionale. Comunque si cerchi di valutare questa vergogna, pro o contro l’Italia unificata, pro o contro la monarchia Sabauda unificatrice, ci ha rimesso soltanto la storia del nostro Paese, e quindi il peso dei valori nazionali che ogni giorno, ognuno di noi porta per il mondo quale bagaglio personale.

Male poi, anzi molto male, noi del mondo monarchico strettamente delimitato. Non siamo riusciti ad organizzare nulla che, anche per un solo giorno abbia richiamato a livello nazionale, l’attenzione dei media su di noi e la causa che abbiamo a cuore : La monarchia !

Dabbenaggini quali la questione dinastica agitata da gruppi e gruppuscoli, immobilismo generale e altre antiche gelosie interne all’ormai ristrettissimo gruppo di “fedeli” monarchici italiani hanno impedito una apparenza di unità, di fronte comune, nel momento migliore per tornare a proporci ad un popolo, che ormai, non solo non ci ricorda più, ma che, in massima parte, non sa neppure che siamo esistiti.

A fronte di questo, appare davvero ininfluente l’impegno che molti di noi continuano a profondere nella causa, e viene da chiedersi perché si continui a giocare una partita senza speranza apparente, persa diversi decenni fa, quando ancora avevamo un Re, ma già l’avevamo lasciato solo in preda ai nostri egoismi e interessi meschini !

Difficile dare una spiegazione a tanta miopia.
La bella medaglia proposta dall’amico Franco Ceccarelli e realizzata in extremis da alcune organizzazioni monarchiche riunite (Allenaza Monarchica, Movimento Monarchico Italiano e Guardie d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon) ad esempio, sono però una risposta chiara dell’evidenza che, un buon lavoro tendente ad aggregare, non può che portare ad un buon risultato, così come l’encomiabile iniziativa di divulgazione di “Monarchici in Rete” dell’Amico Roberto Tomao.
Cosa avremmo potuto fare e dimostrare quest’anno se avessimo lavorato tutti sullo stesso spartito ?
A nostri posteri, l’ardua sentenza !

Ai lettori di questo sito, i nostri migliori auguri per l’anno che verrà, così come i nostri migliori auguri alla nostra povera Patria, nella speranza che possa sopravvivere ancora, testimoniando nel mondo nonostante questa repubblica, la storia, la cultura, e la civiltà del nostro popolo !
Grazie.

29 dicembre 2011
Alberto Conterio

domenica 9 ottobre 2011

Madame Angela Pellicciari demasquee

Madame Angela Pellicciari demasquee
Smascherata la posizione di falsa revisione storica di Angela Pellicciari.

8 ottobre 2011

Abbiamo esattamente riportato il riferimento, in francese, così come pubblicato in occasione della presentazione di un libro di Alexandre Dumas, assai interessante. 
L'autore narra avvenimenti e situazioni vissute in prima persona, tra il 1860 e il 1863, quando si trovava a Napoli, nel momento storico di passaggio tra il regime borbonico, l'arrivo di Garibaldi e l'unione del Sud al Regno d'Italia. Dumas fu nominato responsabile delle attività culturali del governo provvisorio e creò anche un giornale: L'INDIPENDENTE. 


La presentazione di questo libro, dal titolo forte (La camorra ed altre notizie sul brigantaggio Edizioni La Librairie Vuibert, 416 p., 19 Euro, acquistabile presso le librerie francesi)  è il risultato di una serie di manoscritti inediti, in italiano e in francese,  trovati per caso.
Ne è scaturito un interessante libro-documento presentato, a Nizza, dal gruppo "Antica Contea di Nizza". Nell'occasione si è fatto riferimento a tale Angela Pellicciari che ha pubblicato, con la Casa Editrice Ares di Milano, due libretti che non hanno nulla a che vedere con una seria revisione storica di fatti e avvenimenti che possono riguardare  il nostro Risorgimento Nazionale.
In effetti la nostra disinvolta autrice si è semplicemente lanciata nello sport nazionale più di moda:  sputare ingiurie nei confronti di Casa Savoia, del Piemonte Sabaudo e della Monarchia.
Dai suoi scritti emergono affermazioni unilaterali, senza prove, che riguardano soprattutto la provocatoria iniziativa di rappresentare il reame di Napoli come uno stato ideale: colto, pacifico, ricco, senza problemi ed attaccato dalle "orde" piemontesi che lo avrebbero  ridotto ad una landa desolata. La realtà è ben diversa. Dagli scritti inediti di Alexandre Dumas emerge come il brigantaggio e la camorra esistessero  sin dai tempi dei  Borbone che, anzi,  avevano ben inserito queste due realtà nell'organizzazione dello Stato.
Testimonia e scrive Alexandre Dumas: "Il Re Ferdinando II era il vero capo della camorra. Sotto il suo Regno, tutti rubavano. Il Re Borbone lasciava rubare e lui stesso dava l'esempio, in certi casi, rubando a piene mani".  Era presente alla manifestazione l'Avv. Massimo Mallucci, Segretario Nazionale di Alleanza Monarchica, che ha dovuto, purtroppo denunciare come, in Italia, siano stati dati spazi e patrocinii ufficiali a questa disinvolta signora che, tra l'altro, durante le sue rappresentazioni non ammette confronti di idee.
Purtroppo, nel corso di questo anno, tale persona, che proviene dall'estremismo della sinistra sessantottina,  è stata sostenuta da movimenti  cattolici come Comunione e Liberazione e i Neo Catecumenali, ottenendo patrocinii da "Curie Vescovili" nonchè da società che si fregiano del titolo di "Ente Morale", ottenuto durante il periodo del Regno d'Italia, come la Società Economica di Chiavari.

martedì 6 settembre 2011

L’Italia unita? Era nel salotto di Margherita


L’Italia unita?
Era nel salotto di Margherita

di Francesco Perfetti
29 luglio 2011

Il primo successo di Margherita di Savoia, come Regina, fu la conquista del cuore di Giosué Carducci. Era salita al trono il 9 gennaio 1878 quando il marito (e cugino) aveva assunto, con il nome di Umberto I, la successione del padre, Vittorio Emanuele II, il «Re galantuomo». I sovrani, qualche mese dopo, avevano iniziato un lungo viaggio in Italia e ovunque avevano riscosso manifestazioni di simpatia ed entusiasmo a riprova dell’avvenuta «nazionalizzazione» della dinastia a pochi anni dalla compiuta unità nazionale. A Bologna il poeta anticlericale e repubblicano rimase colpito dalla regina: la vide una prima volta, nel pomeriggio, mischiato tra la folla. La rivide la sera, affacciata a una finestra. La incontrò, infine, a un ricevimento dov’ella gli apparve «con una rara purezza di linee e di pose nell’atteggiamento e con una eleganza semplice e veramente superiore sì nell’adornamento gemmato sì del vestito largamente cadente».


La «conquista» del cuore del poeta ribelle - presto sancita dai versi dell’ode carducciana Alla Regina d’Italia - fu anche, e prima di tutto, un successo politico per una sovrana che in poco tempo avrebbe rinnovato la vita della corte sabauda aprendola alla mondanità e alla cultura e contribuendo al radicamento della dinastia nel Paese. Accanto a una sua corte - che, per la prima volta nella storia millenaria dei Savoia, raccoglieva dame avvenenti e colte provenienti da tutto il regno - ella costituì un più ristretto salotto intellettuale, quasi un «circolo della regina», frequentato assiduamente da uomini di cultura con i quali poter discutere liberamente di arte, letteratura, filosofia.
Alla corte di Margherita si ritrovarono le celebrità del tempo, prevalentemente aristocratici ed esponenti dell’alta borghesia, ma anche uomini divenuti famosi per il loro contributo alle arti e, in qualche caso, per la carriera politica. Tra gli habitués, tutti o quasi di orientamento conservatore, vi erano filosofi e uomini pubblici come Terenzio Mamiani e Ruggero Bonghi, scrittori di cose storiche come il marchese Francesco Nobili Vitelleschi, collezionisti come Marco Baracco e, primo fra tutti, animatore e stella del salotto, Marco Minghetti. Proprio quest’ultimo, lo statista bolognese allievo di Carducci, divenne il confidente della regina, l’uomo che la consigliava e indirizzava nella scelta delle letture e, infine, il privato insegnante di latino. Il carteggio tra la sovrana e il suo mentore - ora pubblicato in una bella edizione critica a cura di Carlo Maria Fiorentino con il titolo Alla corte della Regina. Carteggio fra Margherita di Savoia e Marco Minghetti (Le Lettere, pagg. 222, euro 22) - documenta questo intenso rapporto intellettuale, durato dal 1882 al 1886, fra due anime che s’intendevano appieno. E ciò malgrado la differenza d’età, di preparazione culturale e, in certo senso, di estrazione sociale, perché Minghetti che, pure, era diventato un professore illustre e uno statista di primo piano, proveniva da una famiglia di origine popolana arricchitasi ai tempi di Napoleone.
Minghetti fu tra i primi frequentatori, al Quirinale, del salotto pomeridiano e serale della regina, ma, quando questa decise di imparare il latino, a quelle visite si aggiunsero le quasi quotidiane lezioni mattutine che dovettero contribuire a far sorgere, tra i due, quel grado di confidenza e di intimità intellettuali delle quali è traccia nel carteggio. E delle quali una ulteriore conferma si trova nelle parole commosse cui Margherita - nota per la riservatezza e la prudenza - si lasciò andare comunicando a un’amica carissima il suo dolore per la scomparsa di Minghetti: «mi pare ancora impossibile che non debba più vederlo la mattina, come da vari anni ero abituata, ed era un’abitudine dolcissima, perché è difficile sentire parlare in modo più elevato senza nessuna pedanteria ed in una maniera che ogni parola era una luce del cuore e della mente».
Il carteggio fra i due rivela come l’anziano statista non si preoccupasse solo, e con grande scrupolo, di guidare la sovrana nell’apprendimento della lingua e della letteratura latina, ma anche, come ha ben osservato Fiorentino, «di orientarla in maniera più ampia culturalmente e politicamente in una direzione che avrebbe dovuto coincidere con i valori della civiltà liberale moderata non soltanto italiana».
Non solo. Minghetti cercò anche di stemperare l’entusiasmo che la regina manifestava nei confronti di quel Carducci, già ferocemente repubblicano e ora filocrispino, che era stato conquistato dal suo fascino, dall’«eterno femminino regale».
Un’amicizia profonda, dunque, tra Minghetti e Margherita. Un’amicizia che fu tutta e solo intellettuale, ma che, man mano che si rafforzava, finì probabilmente per muoversi lungo il crinale di un sentimento che avrebbe potuto avere altri esiti. E certe allusioni di Margherita, contenute nelle sue lettere, lo lascerebbero pensare: la notazione, per esempio, sulla differenza di età di una coppia di diplomatici (37 anni, superiore a quella esistente tra lo statista e la regina) o, ancora, il riferimento al Quirinale come a una «gabbia dorata» nella quale ella faceva «la parte dell’uccello che canta e fa vedere le sue penne colorate». Se esiti diversi da una amicizia solo intellettuale non si ebbero ciò fu dovuto, probabilmente, al fatto che Minghetti era troppo fedele servitore del re per fargli un torto, mentre, dal canto suo, Margherita, pure affettivamente allontanatasi dal marito, si sentiva troppo investita dei doveri, anche di rispettabilità, connessi al suo ruolo di sovrana.
Il carteggio fra Minghetti e Margherita offre un ritratto psicologico, oltre che intellettuale, della regina, mettendone in luce gusti, preferenze culturali, intelligenza, interesse per le cose politiche. Ma anche, soprattutto per quel che riguarda proprio la politica, un riserbo dovuto al fatto che ella riteneva che in scelte e decisioni di tal natura contava solo la parola del re. Il «circolo» di Margherita, del quale Minghetti era frequentatore e protagonista, non assunse mai una valenza superiore a quella di un circolo puramente intellettuale. A differenza di quanto avrebbe fatto, in seguito, Maria José, la quale pure raccolse attorno a sé una corte di intellettuali illustri - da Indro Montanelli a Carlo Antoni, da Manlio Lupinacci a Umberto Zanotti Bianco - con i quali ebbe modo di intessere un discorso culturale, sì, ma anche e, forse, soprattutto politico. Ma i tempi, in fondo, erano cambiati. E l’età umbertina era ormai un ricordo lontano.

giovedì 17 settembre 2009

Bibliografia

Bibliografia

Amici della corona ferrea - Relazioni sulla sommossa di Milano 6-9 maggio 1898 pp 44
Antonio Spinosa - Vittorio Emanuele III (L’astuzia di un Re) - Mondadori pp 464
Arthur M. Schesinger JR - L’eta di Roosvelt - Soc. Editrice il Mulino pp 444
Ass.Gioventù Piemonteisa - Annales Sabaudiae Vol.1 pp 123
Bertoldi Silvio
- Aosta, gli Altri Savoia - Rizzoli pp 291
- Il Regno del Sud - Rizzoli pp 259
Borghese Principe Valerio - Decima Flottiglia Mas - Garzanti pp 375
Cappellano E. e Pignate N. - Il Regio Esercito all’8 settembre 1943 - Storia Militare pp 112
Caruso Alfio - In cerca di una Patria - Longanesi pp 296
Cesare Abba Giuseppe - Da Quarto al Volturno - Mondadori pp 190
De Brosses - Viaggio in Italia (1739 - 1740) Editori Laterza pp 764
De Simone Cesare - L’Isonzo mormorava - Mursia pp 320
Di Savoia Maria Gabriella - Casa Savoia, Storia di una Monarcia (fotografico) - Mondadori pp 191
Fenoglio Alberto - L’Assedio di Torino 1706 e Pietro Micca - Piemonte in Bancarella pp 317
Fiorentino Waldimaro
- Chissà perché Degasperi Si e Umberto di Savoia No - E.d. Catinaccio pp 83
- Italia, Patria di Scienziati Vol.1 Ed. Catinaccio pp 431
- Tra federalismo e decentramento - Ed. Catinaccio pp260
Gabanizza Lorenzo - Corona oggi - Aletti Editore pp 142
Gasparetto Pier Francesco - Vittorio Emanuele II - Rusconi pp 242
Giovanni Artieri - Quaran’anni di repubblica - Ed. Mondadori pp 295
Giusti Corrado - Il Ref.Istituzionale del 2-3/6/46 - Athenaenm pp 101
Granellini Fabio - Storia della Guerra Italo Turca 1911-12 - Aquada Editore pp 227
Ilari, Crociati e Paoletti - La guerra delle Alpi (1792-1796) - Stato Maggiore Esercito pp 379
Lumbroso G. - I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII - Edizioni M. Minchella pp 223
Malnati Franco
- Dalle Corone al Caos - Ed. Bastogi pp 256
- La grande Frode - Ed. Bastoni pp 444
Mayda Giuseppe - Il Processo al III Reich, Norimberga - Mursia pp 290
Massignani Alessandro - Rommel in Africa - Mursia pp 232
Mormorio Diego - Il Risorgimento 1848 / 1870 (fotografico) - Editori Riuniti pp 180
Oliviero Marco - Battaglia di Orbassano 1693 - La Rocca Grafica pp 87
Pansa Gianpaolo - Il sangue dei vinti - Mondadori pp 381
Pezzana Aldo - Gli Uomini del Re - Ed. Bastoni pp 164
Piero Pan Gianni - Ortigara 1917 - Mursia pp387
Rebuffa Giorgio - Lo Statuto Albertino Il - Mulino Editore pp 173
Ricchezza Antonio - Campagna di Russia Vol. 1 e 2 - Longanesi pp 218
Rommel Erwin (Mini Fabio ) - Fanteria all’Attacco - Santor pp 420
Scala Edoardo - La guerra del 1866 e altri Scritti - Stato Maggiore Esercito pp 340
Sogno Edgardo e Cazzullo Aldo - Dalla resistenza al Golpe Bianco - Mondatori pp 177
Speroni Gigi
- Amedeo di Savoia Duca d’Aosta (La resa dell’Amba Alagi) - Rusconi Editore pp 228
- In nome del Re - Rusconi Editore pp 169
- Umberto II - Rusconi pp 369

venerdì 11 settembre 2009

Federalismo : tasse locali cresciute del 10 %

Federalismo : studio sintesi, in 5 anni tasse locali cresciute del 10,1%

(ASCA) - Roma, 23 dic 2007 - Irap, Irpef regionale, Rc auto, Ici, Irpef comunale.
Una serie di tasse locali che negli ultimi cinque anni sono aumentate del 10,1% in termini reali.
In pratica, Comuni, Province e Regioni hanno incassato nel 2006 ben 72,9 miliardi di euro (nel 2001, invece, l'ammontare complessivo delle tasse locali era di 58,8 miliardi).
A fare i conti e' il Centro Studi Sintesi di Venezia che ha analizzato la pressione tributaria (imposte e tasse) a livello locale.
Secondo lo studio, nel 2006 e' stata di 1.248 euro la pressione tributaria locale per abitante contro i 1.134 euro nel 2001.
Una cifra rilevante, cresciuta di anno in anno con un certo impatto nel sostenere lo sviluppo delle economie locali.
Dopo il Lazio, con una pressione fiscale locale di 1.662 euro, sono soprattutto i residenti nelle regioni del Nord della Penisola ad essere i maggiori contribuenti.
Nel 2006 la pressione tributaria locale della Lombardia era di 1.576 euro pro-capite, doppia rispetto a quella registrata in Sicilia (ultima regione come sforzo fiscale locale) con 696 euro pro-capite. Notevoli sacrifici sono stati richiesti anche ai cittadini piemontesi (1.571 euro euro pro-capite), ai valdostani (1.483 euro), agli emiliano-romagnoli (1.472 euro), ai toscani (1.400 euro) e ai veneti (1.357 euro). Sotto la media nazionale e nelle posizioni piu' basse in questa particolare classifica si trovano invece la Basilicata (767 euro), la Calabria (773 euro) e la Campania (864 euro).

giovedì 27 agosto 2009

La mano tesa di Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele II alla vigilia della seconda Guerra di Indipendenza

Eppure, ancora prima della Seconda Guerra d’Indipendenza, SM Vittorio Emanuele II di Savoia scrive al cugino Borbone per riproporre il progetto neoguelfo del Padre Carlo Alberto, egli scrive infatti

“(...)Gli italiani possono più esser governati come lo erano trent'anni or sono. Eglino hanno acquistato la sapienza e la forza sufficiente per difendersi. D'altra parte la pubblica opinione ha sancito il principio che ogni nazione ha il diritto incontestabile di governarsi come meglio crede (…) Siamo così giunti a un tempo in cui l'Italia può essere divisa in due Stati potenti, l'uno del settentrione, l'altro del Mezzogiorno, i quali adottandoi una stessa politica nazionale, sostengano la grande idea dei nostri tempi, l'indipendenza nazionale. Ma per mettere in atto questo concetto, è come io credo, necessario che V.M. abbandoni la via che ha fino ad ora tenuta. Se Ella ripudierà il mio consiglio verrà forse il tempo in cui sarò posto nella terribile alternativa o di mettere in pericolo gli interessi più urgenti della mia stessa Dinastia, o di essere il principale strumento della sua rovina”.

A questa lettera Casa Savoia ebbe in risposta un rifiuto, e la Storia del nostro paese prese la strada che conosciamo…

Carlo Alberto e le speranze Neo Guelfe

Carlo Alberto - Ancora spera in una Italia Neo Guelfa

Ancora il 1° Febbraio 1849 comunque, alla ripresa delle operazioni militari, Carlo Alberto di Savoia, ormai solo contro il nemico Austriaco, auspicava ancora al ricomponimento dell’originario programma neo-guelfo affermando nel Discorso della Corona in Parlamento : “Ci aiuteranno nel nobile arrigo l’affetto e la stima delle nazioni più colte ed illustri d’europa, e specialmente di quelle che ci sono congiunte coi vincoli comuni della nazionalità e della patria. A stringere viemmeglio questi nodi fraterni intesero le nostre industrie; e se gli ultimi eventi dell’Italia centrale hanno sospeso l’effetto delle nostre pratiche, portiamo fiducia che non siano per impedirlo lungamente”, e più oltre a conclusione del medesimo discorso affermava ancora : “La confederazione dei Principi e dei Popoli Italiani è uno dei voti più cari del nostro cuore e useremo ogni studio per mandarle prontamente ad effetto”

E’ chiaro quindi che il Regno di Sardegna ed i Savoia aderendo a questo principio, manifestavano la volontà di realizzare l’unità Italiana non contro gli Stati preesistenti, ma con il loro coinvolgimento e se possibile con la loro collaborazione.
Possiamo così affermare che a causa delle autorevoli defezioni a questo programma, si giunse alla sconfitta di Novara e con essa alla fine di tutte le speranze “italiane”. L’indipendenza fu quindi compiuta dal Piemonte e da casa Savoia, che rispondendo “Al grido di dolore” proveniente dall’Italia oppressa, disponevano delle armi, della diplomazia ma soprattutto perché avevano affrontato l’impegno storico con una preparazione culturale, un programma ed una concretezza assolutamente assenti tra i rivoluzionari, sognatori e velleitari e dall’atteggiamento di tutti i Principi intriso di rancori per poter raccogliere attorno alla loro bandiera forze sufficienti al conseguimento degli obiettivi fissati.

Il Risorgimento : Avvio del progetto Neo Guelfo

Il Risorgimento - Avvio del progetto Neo Guelfo

E veniamo proprio alla prima campagna militare, nella quale S.M. il Re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia Carignano, uno dei fautore del federalismo neo-guelfo, si lanciò generosamente nella prima guerra d’indipendenza, al richiamo dei moti e degli
innumerevoli subbugli contro lo straniero ….Il 23 marzo 1848, Re Carlo Alberto volle assegnare al suo esercito il tricolore italiano, quale segno evidente che non era intenzione conquistare, ma “costruire” a proprio rischio e pericolo, la realizzazione dell’agognata indipendenza, se possibile in collaborazione con gli altri Regni sovrani della penisola. Egli infatti afferma :
“E per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana”.

I’8 maggio 1848 si inaugura il Parlamento Subalpino, riunito a Torino ed eletto il 27 aprile dello stesso anno, attraverso 204 collegi uninominali.
In tale occasione, si apre anche la tradizione del “Discorso della Corona”, da allora sempre seguita all’apertura delle nuove legislature. In quell’occasione, davvero solenne, Re Carlo Alberto, da poco partito per la prima guerra d’Indipendenza , delega alla sua lettura il Luogotenente del Regno, nominato in sua assenza.
S.A.R. il Principe Eugenio Emanuele di Savoia leggerà : “ In Italia le disgiunte parti, tendono ogni giorno ad avvicinarsi, e quindi vi è ferma speranza che un comune accordo leghi i popoli che la natura destinò a formare una sola Nazione…”
Volontari da tutta Italia
l'offerta da tutta Italia di combattenti (16.000 Napoletani con Guglielmo Pepe, Siciliani, 17.000 Pontifici di cui 7.000 regolari del Gen. Durando, toscani) non fu certo rifiutata, giacché l'esercito sardo era molto inferiore a quello austriaco.

Curiosità

Il 7 agosto 1848 dopo la sconfitta di Custoza si arruola volontario nel Corpo dei Bersaglieri il 21enne Michele Amatore, originariamente Sulaiman schiavo nero del Sudan. Nel corso degli anni di servizio, fu da tutti ricordato come il Capitano Moro. Insignito di medaglie e onorificenze si spense il 7 giugno 1883.

Conclusioni
Questa partecipazione congiunta, di diversi Stati, più quella dei numerosi volontari da ogni parte dell’Italia, e persino dalla Dalmazia consentì numerosi e brillanti successi. Questi successi però, fecero anche sorgere gelosie e preoccupazioni nei Principi, i quali ritirarono l’adesione all’iniziativa, passando di fatto dalla parte dello straniero, deludendo non poco le speranze e le illusioni dei rivoluzionari, ma anche di casa Savoia.

Quale Italia ?

Quale Italia ? (possibilità)

Tra i primi a teorizzare la soluzione federalista, fu il Conte Gian Francesco Galeoni di Napione Cocconato, il quale, nel 1791, diede alle stampe in Torino uno studio dal titolo “Idea di una confederazione delle Potenze d’Italia”.
Egli comunque considerava questa federazione come fase iniziale al processo di unificazione.

Nel 1814, Benedetto Borselli di Savona, proponeva un’”associazione di Stati Italiani, con una Dieta di Sovrani, e di repubbliche, presieduta dal Pontefice”.

Era il primo esempio di suggerimento al federalismo neo-guelfista.

Nel 1846, Vincenzo Gioberti, confermava questa teoria sull’opera “Il primato morale e civile degli Italiani”, dove rilevava che l’Italia aveva in se tutte le condizioni del suo risorgimento nazionale e politico, senza ricorrere agli aiuti ed alle imitazioni straniere, e che l’unità italiana poteva essere realizzata dal Papa, sotto forma di una confederazione dei vari Stati.

Un’evoluzione dell’idea di Gioberti, si riscontra nel saggio “La Costituzione secondo la giustizia sociale, con un’appendice sull’unità d’Italia” che scrisse Antonio Rosmini Serbati a Napoli nel 1848. Il filosofo cattolico sosteneva (profeticamente) che l’unità sarebbe stata aiutata dal progredire dei mezzi di comunicazione che avrebbero ridotto le distanze, e dai matrimoni misti, che avrebbero attenuato le pur evidenti differenze di carattere degli Italiani.

Alla scuola neo-guelfa, si contrappongono le concezioni federaliste laiche di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo (Milano), che non ravvisavano la necessità di un organo comune tra le varie repubbliche (che sognavano), ma ritenevano fosse sufficiente il sentimento di necessità e mutuo soccorso di fronte al pericolo straniero !
Carlo Cattaneo in effetti nutriva una forte avversione nei confronti dei vicini Savoia, ed a lui è attribuito il disegno di una Lega di Stati Italiani, uniti sotto la presidenza dell’Imperatore d’Austria.
Questo concetto è il tema di diversi scritti apparsi su “Il politecnico”, un periodico di Milano del tempo.
Chi si opponeva radicalmente alle tesi Federaliste era Giuseppe Mazzini. Egli infatti ravvisava un nesso tra il frazionamento dell’Italia ed il suo servaggio…. Nell’individualismo degli Italiani stessi “che si nutre di tutte quelle gelosie, gare e vanità di città e di municipi, passioncelle abbiette e meschine che brulicano nella penisola come vermi nel cadavere di un generoso”.

In conclusione, le correnti di pensiero che agitarono la nostra penisola e prepararono il Risorgimento italiano, si polarizzarono intorno a due punti fondamentali : unità e federazione.

Il 1848 fu l’anno d’oro delle concezioni federaliste, ma segnò anche l’inizio del loro declino per la sconfessione del programma neo-guelfo da parte di chi avrebbe dovuto orchestrare (Pio IX) e per il fallimento del primo esperimento di azione federale (campagna militare del 1848-49)

Vandali danneggiano il Sacrario di san Martino

Vandali danneggiano Sacrario di San Martino della Battaglia

8 Giugno
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera

La Francia considera sacra Verdun, l’America non permetterebbe mai che fosse profanato il nome di George Washington, l’Inghilterra tiene al villaggio belga di Waterloo al punto da aver chia­mato così la stazione dove arrivavano i treni da Parigi. Anche noi abbiamo una battaglia fondati­va. Un luogo, San Martino, e una data, 24 giugno 1859, un secolo e mezzo fa: prima l’Italia non c’era, e dopo sì. Ma non si può dire che noi italia­ni ne abbiamo rispetto.

Il luogo è bellissimo, una torre su un colle che guarda il Garda, e lungo la scala grandi affreschi che ricordano tutte le guerre d’indipendenza, e anche il conflitto ’15-‘18.

L’affresco racconta che fu re Vittorio Emanue­le a comandare le cariche, e la scritta a fianco che Maurizio ama Sonia (o almeno la amava il 2/3/89). Qui Garibaldi guida i Mille, e accanto Lu­ciano ha inciso la data delle nozze con Patrizia (25/10/2008). Lassù Cadorna e i bersaglieri apro­no la breccia di Porta Pia, e «la famiglia Sala gri­da: forza Inter!». Decine, centinaia, migliaia di scritte, graffiti, incisioni si sono accumulati da più di vent’anni nel sacrario che celebra San Mar­tino, dove Napolitano e Sarkozy verranno tra due settimane per il centocinquantesimo anni­versario della battaglia che vide italiani e france­si sconfiggere gli austriaci e dare a un popolo una patria.

Ma è divenuto il ricetta­colo d’ogni bizzarria di generazioni di visitatori. Scritte vagamente politiche: «Le guerre fanno tut­te schifo», «se Garibaldi se ne stava a casa sua era meglio per tutti», e ovviamente «Padania libe­ra » (più volte). Ma anche insulti, profferte ses­suali, disegni osceni, motti di spirito — «qui De­borah e Marco tentarono di fare un figlio ma fu­rono disturbati da un visitatore» —, citazioni An­ni ’80 di Bob Marley e recentissime di Jovanotti, una firma di Renato Zero si spera apocrifa, e una grande statua di re Vittorio Emanuele II con una ragnatela sulla spada, un’altra sull’orecchio de­stro, una terza lungo i calzoni… L’altoparlante che diffonde il Va pensiero e l’Inno di Mameli rende il quadro se possibile più surreale.

La colpa è di tutti, quindi di nessuno. Certo non dell’associazione «Solferino e San Martino» e del comune di Desenzano, che anzi hanno appe­na restaurato le lapidi del viale che porta all’ossa­rio, con le iscrizioni in cui le cariche sono ovvia­mente «impetuose» e le fanterie «eroiche» (qui si intravede «strenua artiglieria», qui «indomito valore»). Non dell’amministrazione provinciale e regionale che certo hanno cose più urgenti cui badare, così come il ministero della Difesa. Ma neppure le migliaia di grafomani probabilmente hanno creduto di profanare qualcosa di sacro, o almeno di importante. Devono aver pensato che in fondo lo fanno tutti, e che il loro nome non vale meno di quelli dei generali sabaudi o dei vo­lontari napoletani incisi nella pietra; loro, oltre­tutto, sono vivi.

Il Risorgimento non è di moda. Lo sono molto di più i briganti, i Borboni, il Papa Re. Vengo­no rivalutate le insorgenze, si cita spesso la Napo­li- Portici prima ferrovia della penisola (ometten­do di ricordare che serviva a portare i cortigiani da una reggia all’altra), si piange sugli zuavi pon­tifici. Degli 846 caduti di San Martino — cui van­no aggiunti i 375 morti nei giorni successivi per le ferite, i 3707 mutilati, i 774 prigionieri o disper­si — non sembra importare quasi a nessuno.

Peccato, perché è una storia affascinante, di quelle da raccontare ai bambini. Due imperatori in campo, di là Francesco Giuseppe, di qua Napo­leone III (molti visitatori sono francesi, che van­no ancora giustamente fieri della prova offerta dall’Armée, piene le città di vie dedicate a Solferi­no, a San Martino, a Mac Mahon). Un re popola­no, Vittorio Emanuele II, che alle esangui dame dell’aristocrazia europea preferisce la figlia di un tamburino. Brigate che portano nomi piemonte­si — la Casale, la Pinerolo, la Acqui, la Cuneo, la Savoia, la Aosta, oltre ai granatieri di Sardegna — ma rafforzate da volontari venuti da tutta Ita­lia. L’ossario custodisce resti di milanesi, veneti, trentini, toscani e anche giovani del Sud, che for­se non afferrarono tutte le parole che Vittorio Emanuele gridò in dialetto — «o gli prendiamo San Martino o ci fanno fare sanmartino» (san­martino in piemontese è il trasloco, dal giorno in cui scadevano i contratti dei mezzadri) —, ma che dovettero aver compreso benissimo quel che il re intendeva dire. Tra i volontari toscani c’era Collodi, l’inventore di Pinocchio. E tra i testimo­ni ci fu lo svizzero Henri Dunant, che — impres­sionato dai lamenti dei feriti lasciati senza soccor­so, qui e a Solferino — disse a se stesso che quel­la sarebbe stata l’ultima battaglia tanto crudele. Così il 24 giugno 1859 nasceva, con l’Italia, la Cro­ce Rossa.

Più che il Risorgimento, forse è l’idea di patria a essere ancora fuori moda, o comunque non del tutto rivalutata. Ciampi in particolare ha lavora­to molto sui simboli dell’unità nazionale: il trico­lore, l’inno di Mameli, il Vittoriano. Quel che con­tinua a sfuggirci è l’idea del bene comune, di una storia condivisa, di un valore che ci riguarda tut­ti e nello stesso tempo ci trascende. Perciò, per un governo che ha dichiarato guerra ai graffiti, i primi da cancellare sono quelli di San Martino.

Risorgimento : Storia da riscrivere

RISORGIMENTO : SACCONI (Ministro), STORIA DA RISCRIVERE

(ASCA) - Treviso, 18 mag - ''La storia del Risorgimento e' da riscrivere''. Lo ha detto il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, alla presentazione del libro ''Dialogo su Vittorio Veneto'' del senatore Maurizio Castro, del Pdl, che invita la citta' della vittoria della prima guerra mondiale a ripensare la biografia risorgimentale. Fra 2 anni ricorre il 150* anniversario dell'Unita' d'Italia e nel 2018 il 100* della fine del primo conflitto mondiale a Vittorio Veneto.

''Il modello per il futuro del Paese e dell'Europa - ha detto Sacconi - non puo' essere quello della monarchia sabauda, modello che peraltro nessuno oggi rimpiange, ma della Serenissima Repubblica di Venezia''. Come dire, l'oligarchia da una parte, il popolo dall'altra; da una parte la burocrazia centralistica, dall'altra la sussidiarieta'. E se il Risorgimento - ha sottolineato ancora Sacconi - e' il risultato di alcune oligarchie, Vittorio Veneto dimostra, con la conclusione della prima guerra mondiale, che ''e' stato il popolo a pagare il prezzo piu' alto'' nella storia d'Italia.

Agenzia ASCA - 18-05-09


Due paroline sulla Serenissima Repubblica di Venezia !

Uno Stato forte e potente, retto però da un’oligarchia di poche e potenti famiglie che si accordavano tra loro nel “broglio”, un angolo della piazza San Marco per eleggere a turno e solo tra di loro la figura del Doge, senza che questa disturbasse gli interessi ed i guadagni delle stesse !

A questo aspira il Ministro Sacconi ?

Intervista a Luca Zingaretti

Intervista a Luca Zingaretti
"Rifarei Montalbano ma finora la Rai non m’ha chiamato"

Articolo di : di Michele Anselmi
venerdì 29 maggio 2009
Il Giornale.it

Roma - «Sono un fautore della lentezza. Permette di capire meglio le cose. Siamo bombardati da migliaia di notizie in tempo reale, ci sembra di sapere tutto, invece non approfondiamo nulla». Luca Zingaretti, classe 1961, romano de Roma ma siciliano «honoris causa», in realtà gira come una trottola. Ieri mattina è volato a Roma da Bologna, dove sta girando il nuovo film di Pupi Avati, per rientrarvi nel pomeriggio, giusto in tempo per una lettura nel quadro della rassegna «Regina pecunia». Stamattina sarà a Siena, dove si apre la quarta edizione di «Hai visto mai?», combattiva Festa del documentario «su temi sociali e di costume» che l’attore pilota dal 2006. Vorrebbe parlare solo del suo piccolo festival, nato attorno a una tavola imbandita e via via cresciuto nell’attenzione di stampa e tv, tanto da conquistarsi il sostegno del Segretariato sociale della Rai. Ma fa qualche eccezione.

(…)

Il cinema, però, continua a praticarlo assiduamente.
«Leggo tanti copioni, vaglio molte proposte. In generale, penso sia meglio fare buona tv popolare che cattivo cinema d’autore. D’altro canto, se una cosa mi piace non guardo al numero delle pose. Ho fatto una particina in Noi credevamo di Mario Martone, sono Francesco Crispi, parlamentare della sinistra sin dal 1861, prima repubblicano mazziniano, poi sostenitore della monarchia sabauda. Già, il Risorgimento. A scuola si studia poco e male. E pensare che i nostri guai partono tutti da lì».

(…)

L'Italiano e Casa Savoia

L’Italiano e Casa Savoia

Casa Savoia, fu la prima in Italia a considerare ufficialmente la lingua italiana, lingua di stato. Emanuele Filiberto Duca di Savoia nel 1562, trasferendo la capitale da Chambery a Torino, decretò che tutti i documenti di stato fossero da quel momento scritti in lingua italiana.

Tanto che il Torquato Tasso,scrisse di Emanuele Filiberto Duca di Savoia, in buon Italiano: "il primo e più valoroso e glorioso Principe d’Italia".
Tutti i sovrani Savoia da allora hanno sempre parlato Italiano oltre alle altre lingue di maggior uso in uso in Europa.

Per arrivare allo specifico delle solite calunnie... SM Vittorio Emanuele II Re di Sardegna prima e Primo Re d'Italia poi, parlava e scriveva in corretto Italiano, come era in grado di parlare e scrivere correttamente in Francese. Conosceva inoltre il Latino ed il Greco antico. Usava parlare con i suo Entourage in Dialetto Piemontese, questo si era sua caratteristica, ma lo faceva perché era persona pratica e bonaria.

Del resto non si capisce perché Francesco II Re di Napoli debba essere “onorato” perché parlava Napoletano…. Due pesi e due misure SEMPRE

A Corte, si usava parlare in Francese,

VERO !

…ma non era un vezzo di Casa Savoia, era una necessità pratica della corte stessa, che vedeva convivere tra loro parenti di diverse nazionalità, e numerosi plenipotenziari, ambasciatori e ministri stranieri.
La regina moglie di SM Carlo Alberto (Maria Teresa) e la moglie del Principe Vittorio Emanuele (Maria Adelaide) erano Austriache ad esempio.
Ciò che succedeva nelle corti di tutti gli stati d'Italia poi era normale anche all'estero. A San Pietroburgo a corte si parlava Francese, così come alla corte di Prussia e di tanti altri grandi paesi del tempo.
Va inoltre ricordato, che la lingua internazionale del tempo era il Francese, utilizzata anche dagli ambasciatori Inglesi, fino a poco prima dell'ultima guerra !

Lingua Italiana, i fondamenti

Lingua Italiana, i fondamenti

Va subito chiarito che la lingua italiana, non fu imposta, ma si elevò naturalmente tra il popolo, a cominciare dal medio Evo
In Italia non vi sono altre lingue. Il Piemontese ad esempio non è lingua, …prima dell’italiano la lingua “comune” d’Italia era il Latino, che del resto era lingua unica per mezza Europa

Che significato ha parlare di lingua Piemontese, quando la ricchezza della nostra cultura è data dalla estrema varietà dei mille dialetti di ogni città, paese, borgata e vallata ? A Biella si parla come a Torino, a Saluzzo come a Bra. Ad Ivrea come ad Alessandria ? NO, appunto perché non siamo in presenza di una lingua basata su terminologia e grammatica uniforme !

Sui muri in veneto, sono sempre più numerose le scritte “Voemo parlar veneto”, facendo finta di non sapere che la lingua Veneta non è mai esistita neppure durante la Serenissima Repubblica di Venezia, dove i giornali al tempo venivano stampati in Italiano, proprio per essere capiti da tutti, da una sponda all’altra dell’Adriatico, fino a Ragusa (Albania), come si scrivevano in Italiano anche, Documenti, atti notarili e di governo fin dall'inizio del XVI secolo

La Lingua Italiana NASCE IN VENETO

Fu infatti lo Zaratino (di ZARA) Gian Francesco Fortunio a fissare nel 1516 le "Regole della lingua italiana" in una grammatica, che tra la prima stampa ed il 1552 ebbe 14 edizioni !!!

Un'altra "grammatica" fu di Pietro Bombo (Veneto) intorno al 1550, e tra il 1530 ed il 1573, un Capodistriano, certo Girolamo Muzio, portò a compimento un'opera dal titolo illuminante "Battaglia in difesa dell'italica lingua"

A dire il vero, vi furono altri autori, che prima ancora tentarono in vari modi di fissare per iscritto la nostra meravigliosa lingua, come il Vicentino Gian Giorgio Trissino, che agli inizi del 1500 pubblicò alcune opere in italiano o per l'italiano...
"Arte Poetica", "Dubbi grammaticali" e "L'Italia liberata dai Goti"

Infine a coronamento, voglio ricordare l'opera prima di Gian Rinaldo Carli, anch'esso Capodistriano, che nel 1774, pubblicò un'opera enciclopedica esemplare, ...studio approfondito sulle "Origini della lingua Italiana" !

Questo non solo per chiarire in modo inequivocabile che la lingua italiana non fu imposta, ma che partì dal basso e da lontano affermandosi quale lingua appunto, perché utilizzata da tutti in Italia, ma anche per stroncare una volta per tutte le calunnie sulle bocca di molti...

Finiamola di dar spago, agli Iugoslavi, asserendo che le terre Giuliane, d'Istria e Dalmate non sono italiane, perché abitate a maggioranza da gente slava, quando buona parte della cultura ITALIANA viene da quelle terre o sono state fissate in quelle terre.

Biografia : Waldimaro Fiorentino - “Tra decentramento e federalismo”, Ed. Catinaccio - Bolzano

lunedì 24 agosto 2009

Il sentimento di Italianità

Il sentimento di Italianità

Sergio Romano

su Corriere della Sera del 4 febbraio 2002 a tal proposito scrisse : “Esiste un patriottismo che gli italiani non riescono a esprimere e che crea, per questa sua incapacità di uscire all’aperto, una specie di malessere nazionale. (…) le generazioni del dopoguerra sono state abituate a deridere i suoi simboli tradizionali (…) se qualcuno vuole la prova di questa patologia nazionale - un sentimento che non riesce a trovare né parole né simboli - dia un’occhiata alla bandiera sulla facciata dei palazzi pubblici (…) Non è una bandiera nazionale. E’ un drappo stinto, sporco, spesso stracciato. Lo hanno appeso a un’asta per obbedire a una disposizione ministeriale (...) nessuno si sognerebbe di salutare il “tricolore”, di ammainarlo al tramonto, di ripulirlo per le feste nazionali o di ripiegarlo religiosamente (…) Le sole bandiere che suscitano passione in Italia sono quelle delle contrade al Palio di Siena e delle squadre di calcio negli stadi (…) Ma “l’italianità” - una parola, ormai, pressoché impronunciabile – esiste (…)”

Il bravo Sergio Romano, dovendo dimostrare che l’Italianità è tuttavia presente nel popolo, non può evitare di lasciar cadere il “drappo stinto e sporco” (della repubblica) issato “dalle generazioni del dopoguerra” e ricordarsi di un’altra grande firma del giornalismo italiano,

Oriana Fallaci.
Questa Donna infatti in un suo articolo, che Sergio Romano dice essere stato “per molti lettori la scintilla di un corto circuito”, parla della Bandiera d’Italia scrivendo : “Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell’Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo Stemma Sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello Stemma si inchinò noi l’Unità d’Italia non l’avremmo fatta), me la tengo come l’oro. La custodisco come un gioiello” (Corriere della Sera del 29 settembre 2001).
Oriana Fallaci, che come Sergio Romano certo non può essere considerata persona di fede Monarchica (“sebbene al centro vi sia lo Stemma Sabaudo” ne è prova inconfutabile), non lesina critiche all’odierna repubblica, dichiarando nello stesso articolo : “Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l’Italia d’oggi. L’Italia godereccia, furbetta, volgare (…) L’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o a una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut (…) L’Italia squallida, imbelle, senz’anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco (…) Non è nemmeno l’Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell’ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto (...)”

Tirando le somme quindi, veniamo a capire che il senso di italianità esisteva prima della guerra. Oggi e frustrato dalla repubblica “volgare e vigliacca” dei “grossi posteriori dei suoi rappresentanti incollati alla poltrona” rappresentati dal tricolore napoleonico “stinto e sporco”

Parola di Oriana Fallaci e Sergio Romano : Viviamo in una repubblica contraria ai valori della Patria e dell’Italianità.

La disfida di Barletta

La disfida di Barletta

La mattina del 13 febbraio 1503 tredici cavalieri italiani si scontravano contro altrettanti cavalieri francesi per difendere l'onore, macchiato da accuse di codardia e tradimento mosse da Charles de Tongue, detto Monsieur de La Motte, nei confronti degli italiani. Il 15 gennaio di quell'anno si erano radunati nell'antica Osteria di Veleno, oggi ricordata come Cantina della Disfida, sede del quartier generale spagnolo e del Gran Capitano Consalvo di Cordova, soldati spagnoli e italiani. Al banchetto partecipavano anche dei militari francesi imprigionati precedentemente dagli spagnoli.

La tradizione racconta che durante le conversazioni, La Motte, irritato dagli elogi fatti dai militari spagnoli agli italiani, abbia veemente offeso l'onore di questi ultimi, accusati di viltà, codardia e tradimento. All'offesa non si poté che rispondere con le armi. Si decise che avrebbero combattuto per l'onore della patria in egual numero di uomini, cavalieri francesi e italiani. Furono chiamati a raccolta i più coraggiosi soldati del Regno e, dopo un assiduo scambio di missive tra il capitano della compagine italiana, Ettore Fieramosca, e La Motte, capitano dei francesi, si decise che il 13 febbraio di quello stesso anno, meno di un mese dopo il giorno dell'offesa, si sarebbe combattuto nel territorio compreso tra Andria e Corato. Massimo d'Azeglio narra che, dopo aver giurato fedeltà nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Barletta, i soldati si diressero sul campo e attesero il nemico in ritardo. Ettore Fieramosca e i suoi soldati sconfiggeranno la compagina francese e sarà il capitano italiano a dare il colpo di grazia a quello francese, scendendo da cavallo. Il d'Azeglio afferma che i francesi, sicuri della vittoria, non portarono sul campo di battaglia i pegni pattuiti in caso di sconfitta e per questo furono condotti prigionieri in città.


I partecipanti italiani alla disfida

Ettore Fieramosca da Capua
Ludovico Abenavolo da Teano
Mariano Abignente da Sarno
Guglielmo Albimonte da Palermo
Giovanni Brancaleone
Giovanni Capoccio da Tagliacozzo
Marco Corollario da Napoli
Fanfulla da Lodi
Ettore Giovenale
Miale da Troia
Pietro Riccio
Romanello da Forlì
Francesco Salamone da Sutera

Gino Paoli, la testimonianza di un insospettabile

La testimonianza di un insospettabile

Gino Paoli: i miei parenti finiti nelle foibe
Il cantautore ligure: la sinistra è responsabile culturalmente, sono state coperte le connivenze tra titini e partigiani rossi

La vita e la storia devono essere davvero più complicate di quanto si creda, se accade di scoprire quasi per caso, in fondo a due ore di conversazione, che Francesco De Gregori non è l’unico cantautore simbolo della sinistra (mai rinnegata) ad aver vissuto in famiglia i crimini compiuti dai comunisti, sul confine orientale, al finire della guerra.
Racconta Gino Paoli che «mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi. Io sono nato nel 1934 e ho vissuto i primi mesi Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova. Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata.

I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone
. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata. Per questo mia zia odiava gli jugoslavi; e per me è stata una bella sorpresa, da adulto, andare per la prima volta in Jugoslavia e scoprire che non erano affatto tutti così».

(…) (…)

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/12_Dicembre/21/paoli.shtml

L'Isola di Arbe

Falsi Storici - L’Isola di Arbe

di Filippo Giannini su Il Popolo d’Italia

Da tempo questo giornale ricorda la tragedia vissuta da tanti italiani dell’Istria e della Dalmazia. Ne approfitto per portare la “mia piccola pietra” che valga ad alimentare un ricordo e a denunciare una delle tante contraffazioni storiche.
Qualche tempo fa un lettore scrisse al giornale col quale collaboravo affermando che nel 1942, per ordine di Mussolini . Questa notizia, a detta del lettore, fu riportata da una delle tante riviste che illuminano di verità storiche il nostro Paese.
Risposi che se fosse stato in grado di documentare l’asserto, avrei rivisto completamente la mia opinione su Mussolini. Lo stesso lettore fino ad ora non ha fornito quanto richiesto, né mai sarà in grado di farlo, tanto grossolana è la menzogna.
Dato, però, che Eraclito ammonisce e dato che la fantasia e le favole possono anche poggiare su una base di verità, la curiosità di modesto ricercatore, mi spinse ad indagare.
Dopo una breve visita all’Archivio dello Stato Maggiore Esercito, chiesi un incontro ad uno dei più validi studiosi del vicende dalmate, l’avvocato Oddone Talpo (purtroppo da tempo scomparso), autore della monumentale opera “Dalmazia – Una cronaca per la storia”. Le notizie da me raccolte dalle due fonti confermano quel che mi attendevo: quanto scritto dal lettore in questione, non solo è completamente falso, ma rappresenta addirittura un capovolgimento della realtà.
Inizio precisando che “l’isola prospiciente Fiume”, della quale si è accennato, era Arbe, oggi Rab.
Per la precisione storica, non è male rammentare che la Jugoslavia, concepita come Nazione, a tavolino, durante la conferenza della Pace del 1919 a Versailles, con chiaro intento anti-italiano, era composta da 14 etnie diverse e numerose minoranze, nonché da quattro antitetiche religioni. Ogni etnia e minoranza viveva (e vive) cementata dall’odio contro tutte le altre: cosicché da secoli quelle terre conobbero stragi di inusitata barbarie che portarono alla decimazione dell’etnia soccombente per opera di quella vincente, stragi oggi meglio conosciute come “pulizia etnica”.
Non è il caso, in questa sede di riportare i motivi per i quali l’Asse il 6 aprile 1941 invase la Jugoslavia, il cui esercito fu annientato in sole due settimane. Immediatamente si palesò l’impossibilità di portare la pace fra quei popoli così diversi gli uni dagli altri.
Sin dai primi giorni dell’occupazione varie bande slave locali erano più impegnate a sterminarsi fra loro che ad affrontare le forze occupanti. Cosicché la nostra 2° Armata – accolta con favore dalla popolazione civile – fu impiegata a frapporsi fra le varie bande onde evitare il compiersi di stragi. Poi vennero a formarsi le bande comuniste di Tito, foraggiate dall’Unione Sovietica obbedienti (in quel momento) agli ordini di Stalin.
Per cercare di pacificare quelle terre, il 7 giugno 1941 Mussolini nominò Giuseppe Bastianini (che si era già dimostrato valente diplomatico) Governatore della Dalmazia. Egli constatò immediatamente che la situazione era molto complessa: anche perché si trattava di governare un territorio che aveva per confinante l’”alleato” Ante Pavelic, capo degli Ustascia i quali, oltre tutto, non avevano accettato di buon grado l’occupazione italiana della Dalmazia.
Intanto le bande partigiane di Tito, dopo aver sterminato i cetnici del monarchico Mihajlovic, iniziarono una serie di azioni terroristiche contro le forze dell’Asse, ma anche contro i contadini colpevoli di non rispondere al reclutamento partigiano. annota Bastianini .
E’ poco conosciuta una direttiva del Primo Corpo Partigiano bosniaco, emessa nel 1943: . A queste azioni terroristiche rispondevano, con pari ferocia, gli Ustascia di Pavelic. Cosicché, facilitate dalla disposizione a pelle di leopardo delle varie etnie nel territorio, le stragi raramente potevano assumere una chiara connotazione di responsabilità. Serbi, croati, bosniaci, sloveni, ognuno massacrava gli altri: a Livno furono uccisi 12 cittadini, a Glivna 650, a Knin vennero impiccati tutti i quarantasette rabbini e gli ebrei superstiti della zona vennero posti in salvo dagli italiani (leggi: fascisti) con un trasferimento in Calabria. E’ inutile aggiungere che nel dopoguerra questi massacri perpetrati dagli slavi vennero addebitati alle forze dell’Asse (vedi dichiarazione di Giorgio Napolitano). La verità è completamente diversa: gli abitanti dei villaggi chiedevano la protezione delle nostre truppe. A Knin e dintorni i cittadini presentarono una petizione, con centomila firme, per chiedere l’annessione all’Italia e la cittadinanza italiana. Molti giovani del luogo si arruolarono nel Regio Esercito e molti di loro, circa un migliaio, dopo l’8 settembre 1943 continuarono la lotta antipartigiana nelle file della R.S.I..
Verso la metà del 1941 iniziarono gli attentati contro le nostre truppe, causando decine di morti e feriti. A novembre 1942 fu effettuato un attentato che, per la sua efferatezza fu peggiore dei precedenti. Nei pressi di Capocesto (Spalato) vennero massacrati in una imboscata 21 soldati italiani (17 marinai e 4 genieri). Si può immaginare il disgusto e la rabbia che provarono i soccorritori quando, giunti sul luogo, videro i corpi dei propri camerati orrendamente straziati. Seguendo una “tecnica” prettamente slava ai morti erano stati strappati i testicoli e gli occhi e i primi erano stati inseriti nelle orbite vuote. Come reazione, che oggi possiamo definire inumana e irrazionale – ma allora comprensibile e legittimata dalle vigenti leggi di guerra – il generale Cigala Fulgosi, comandante della Piazza di Spalato, dette ordine di attaccare dal cielo e da terra Capocesto. Per il vile attentato pagò la popolazione civile che lasciò sul terreno 150 morti.
Quando Bastianini venne a conoscenza del fatto, impartì l’ordine di soccorrere e, per quanto possibile, riparare il danno subito dalla popolazione.
Durante la lunga lotta antipartigiana le nostre truppe catturarono migliaia di individui passibili, per le citate leggi di guerra, di essere passati all’istante per le armi. Il Tribunale Straordinario, appositamente istituito per la lotta contro i ribelli, emise solo 58 sentenze capitali, e di queste 47 eseguite. Gli altri partigiani furono inviati in appositi campi di internamento e, fra questi troviamo appunto, l’isola di Arbe alla quale il lettore aveva fatto riferimento.
Allo scopo di evitare nuove situazioni di pericolo per i nostri soldati, per ordine di Bastianini furono internate anche le famiglie dei ribelli.
Questi nuclei familiari vennero sistemati in baracche. Forse a causa dello scarso riscaldamento, oppure per il cibo insufficiente e non appropriato al clima, inasprito dall’imperversare della gelida bora, si verificò la perdita di 350-400 internati.
Sulle vicende dell’isola di Arbe ha scritto Rosa Paini, ebrea, nel libro “I sentieri della speranza”. A pag. 130: .
Quindi nessun “massacro di donne e bambini” ordito da Mussolini, bensì un lodevole intento di salvare migliaia di vite umane.
Gli internati ad Arbe – e in molte altre località - slavi ed ebrei, dopo l’8 settembre ’43 caddero in mano dei tedeschi e degli Ustascia e la loro sorte fu tragica.
Ma questo è un altro discorso.
La storia di Arbe – divenuta in serbo-croato – Rab si arricchisce di un’appendice resa nota da un documentario trasmesso dalla RAI/TV l’8 luglio 1997: a Rab, nell’immediato dopoguerra, il “lager” era diventato uno dei più famigerati campi di sterminio di Tito. Il documentario ha attestato che nell’isola transitarono 30 mila persone: di queste 4.000 vennero bruciate o massacrate, molte si suicidarono, molte altre impazzirono.
Quella che abbiamo sinteticamente ricordato è una delle tante storie delle quali – per bassi motivi di politica – la verità è stata completamente capovolta.
Mi riprometto di tornare sull’argomento perché su questo, c’è molto, molto, ma molto altro da aggiungere. Altro che “il fascismo ha provocato molto dolore ali sloveni”.

L'Uso dei Gas in Abissinia

Falsi Storici - “L'uso dei Gas in Abissinia”

di : Filippo Giannini su Il Popolo d’Italia

Gli Italiani nella guerra di etiopica usarono o no i Gas asfissianti ?
Prima di entrare nel merito sarà bene ricordare che quando l’Italia affrontò quell’impresa, Francia e Inghilterra profetizzarono che, qualora il nostro Paese fosse riuscito a vincere quella guerra, questa sarebbe durata non meno di cinque anni e con perdite inimmaginabili. Grande fu lo scorno della “perfida Albione” allorquando quel conflitto si risolse per noi vittoriosamente in una manciata di mesi. Ecco allora venir fuori il motivo : “hanno vinto perché usarono i gas asfissianti”




In occasione del cinquantenario dell’impresa etiopica ed esattamente il 3 ottobre 1985, il primo canale televisivo della RAI, mandò in onda una trasmissione che doveva essere rievocativa e la direzione fu affidata ad Angelo Del Boca. Come è ormai uso in casi del genere, il programma “non prevedeva”alcuna controparte e, di conseguenza, lascio al lettore stabilire il livello di quello che doveva essere una tale ricostruzione storica.
Algelo Del Boca, è autore del volume “I gas di Mussolini”, come è autore del “saggio” “Indietro Savoia”, e non ha mai centellinato accuse e prese di posizione contrarie.

Per inquadrare il grado di attendibilità dell’Autore, trascrivo quanto ha riportato a pagina 45 del libro sui Gas in questione : “Montanelli ad esempio ha finalmente (?) ammesso l’impiego dei gas in Etiopia (..)”. E’ oltremodo strano che uno “storico”, fornito di ampia documentazione, senta la necessità di ricevere approvazione alle sue tesi da parte di un giornalista anche del prestigio di Indro Montanelli. Nella realtà Del Boca asserisce una grossa inesattezza; infatti Montanelli in data 12 gennaio 1996 su “Il Messaggero” ribadisce : “Se la guerra a cui ho partecipato corrisponde a questi connotati, vuol dire che io ne ho fatta un’altra. Che non c’ero. Ma quali gas ?” alla domanda : “Lei continua a non credere nei Gas ?” Montanelli rispose : “Una cosa sono le carte, che possono anche essere scritte per la circostanza, un’altra le testimonianze vissute”.

E passiamo alle testimonianze vissute…

Pietro Romano, “Il Giornale” del 18.02.1996 . “All’epoca ero un semplice gregario del gruppo Diamanti. Poiché il mio reparto, come risaputo, operò sempre in avanguardia nel Tigrai e altrove, nessuno dei suoi gregari sarebbe sfuggito alle contaminazioni, se fossero stati usati i Gas (…). Poasso assicurare che i gas non furono mai usati”.

Colonnello Giuseppe Spelorzo in data 18-03.1996 : “Ho la buona sensazione che il Sig. Del Boca e altri cretinissimi italiani ne sappiano molto meno di me. Già, io ho avuto la ventura di percorrere tutto l’Impero AOI (…) mai sentito parlare di Gas (…)”.
Ancora il Colonnello Spelorzo in data 12.06.1996 ribadisce : “I Gas ! Nessun militare del nostro esercito conquistatore era dotato di maschere antigas ! Ne sono testimone vivente : sbarcato a Mogadiscio il 24 giugno 1935, rimbarcato a Massaia il 28 marzo 1938 !”.

Giovanni De Simone su “Il Giornale d’Italia” del 23.03.1996 : “(…) In AOI non vennero usati i Gas. Se così fosse stato io sarei stato il primo a saperlo prestando servizio al Sim ove giungevano decrittati tutti i messaggi della intera rete radio del nemico captati dal “Centro intercettazioni” di Forte Bracci; un vero libro aperto per noi in possesso del “decifratore”. Mai rilevata una parola sui Gas”.

Sig. Giulio Del Rosso su “Il Giornale d’Italia” del 24.04.1996 testimonia : “Posso tranquillamente affermare che nel settore del fronte etiopico dal fiume Mareb, confine fra l’Eritrea e l’Etiopia, fino al Lago Tana (oltre 1000 Km, pedibus calcantibus) ove ha operato il VI Corpo d’Armata, comandato dal Generale Babbini e del quale faceva parte il mio reparto, non sono mai stati impiegati Gas tossici. Avevo raggiunto, io, Addis Abeba dopo le ostilità ed avevo avuto l’occasione di contatti con commilitoni provenienti da altri fronti e da altre località ove si susseguirono battaglie cruente e sanguinose, non ho mai sentito la parola “Gas” (…) Altra perla, me la suggerisce una graziosa francesina incontrata a Firenze nel 1937, secondo la quale giornali francesi ed inglesi riportavano che noi Cc.Nn. avremmo mangiato a colazione bambini abissini”.

Lo stesso Winston Churghill nella sua “La seconda guerra mondiale” a pag. 210, esclude l’uso dei Gas nei seguenti termini : “I Gas asfissianti sebbene di sicuro effetto contro gli indigeni non avrebbero certo accresciuto prestigio al nome d’Italia nel mondo”.

Concludiamo le testimonianze con il Generale Angelo Bastioni, presidente del gruppo Medaglie d’Oro, recentemente scomparso : “E’ una vigliaccata, rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci avrebbero almeno date le maschere antigas. Alla battaglia conclusiva di Maiceo, al Lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus; perché lui che ne avrebbe avuto tutto l’interesse mai disse che lo combattemmo coi Gas ?”.

Giriamo allora le domande a chi ne sa più di noi e chiediamo :

1) Perché nessun militare italiano fu mai fornito di maschere antigas come si evince da migliaia di fotografie di soldati in Africa del tutto sprovvisti ?
2) Perché il Negus, benché fosse di casa alla Società delle Nazioni, mai denunciò l’uso di “armi illegali” da parte italiana prima e anche dopo la seconda guerra mondiale ?

l’invenzione del tradimento a Caporetto

l’invenzione del tradimento a Caporetto

di : Giorgio Rochat - 25 ottobre 2007

La battaglia
L’offensiva iniziò alle 2 del mattino con il fuoco dell’artiglieria. Per ottenere la sorpresa i tedeschi avevano rinunciato al bombardamento di più giorni delle grandi offensive del 1917, ma scatenarono un fuoco di straordinaria intensità, migliaia di cannoni e bombarde spararono per due ore senza interruzione sulle batterie nemiche con largo impiego di iprite (la cui persistenza sul terreno limitava fortemente i difensori) e sui comandi, con l’obiettivo di troncare i collegamenti telefonici. Il grosso bombardamento riprese all’alba sulle trincee; mentre i difensori ne aspettavano la fine per uscire dai ricoveri, piccole colonne tedesche avevano già superato i reticolati e penetravano in profondità, con l’aiuto di una fitta nebbia. lasciando ai rincalzi la cattura dei difensori frastornati, Nel corso della giornata gli agili nuclei tedeschi, ben dotati di mitragliatrici leggere, continuarono a avanzare rapidamente cogliendo di sorpresa le unità retrostanti. Il crollo subitaneo di 65 km di fronte e l’interruzione dei collegamenti telefonici mandarono in crisi l’organizzazione difensiva, i comandi persero il contatto con le loro truppe, ripiegarono in disordine senza riuscire a contrastare la progressione tedesca …

La battaglia che sto descrivendo non è quella di Caporetto, bensì l’offensiva tedesca del 21 marzo 1918 in Francia, tra Arras e St. Quentin, un fronte tenuto da quattro armate britanniche. I tedeschi avanzarono di 60 km in una settimana, gli inglesi ebbero 300.000 perdite, la loro V armata si dissolse. Nel 1917 l’esercito tedesco aveva messo a punto una nuova organizzazione offensiva per le grandi e decisive battaglie della primavera 1918 in Francia, con il successo citato del 21 marzo, ripetuto nelle Fiandre il 9 aprile e poi verso la Marna il 27 aprile. Si dimentica troppo spesso che questi nuovi metodi offensivi furono applicati per la prima volta a Caporetto, anche se allora ciò non poteva essere colto.




In Francia i grandi successi iniziali delle truppe tedesche non dilagarono in profondità come in Italia per più ragioni. Innanzi tutto la geografia. A Caporetto gli austro-tedeschi raggiunsero in due giorni le alture che dominavano la pianura friulana, prendendo alle spalle il pesante schieramento italiano sull’Isonzo. In Francia il terreno era pianeggiante, le avanzate tedesche creavano profonde sacche senza raggiungere posizioni forti né obiettivi strategici. Erano quindi esposte alla controffensiva delle riserve anglo-francesi, poi anche americane, favorita dalla buona rete ferroviaria francese, Qui sta la seconda differenza, Cadorna non aveva riserve per contrastare l’offensiva, doveva subirla senza potere reagire. Inoltre Cadorna aveva di fatto sciolto le sue divisioni, separando le brigate di fanteria (che avevano le maggiori perdite e quindi venivano fatte ruotare in trincea) dai loro reggimenti di artiglieria (che avevano minore logorio e quindi potevano restare al fronte per più mesi). Perciò le unità che ripiegavano dall’Isonzo non erano idonee a una battaglia nella pianura friulana, le brigate di fanteria non avevano l’appoggio dell’artiglieria e i reggimenti di artiglieria non potevano combattere perché privi del sostegno della fanteria . Né c’erano i comandi necessari per un impiego articolato delle unità, nella guerra offensiva sull’Isonzo contavano soltanto quelli di corpo d’armata, troppo pesanti per dirigere i combattimenti in ritirata.

Le grandi offensive tedesche in Francia avevano un altro limite, la progressione delle fanterie non poteva contare su un sostegno adeguato perché l’afflusso delle artiglierie e dei rifornimenti dipendeva dai cavalli, che avevano grosse difficoltà di movimento su un terreno sconvolto dai combattimenti. A Caporetto invece le divisioni austro-tedesche poterono approfittare di una buona rete stradale, nella pianura friulana furono raggiunte dalle loro artiglierie leggere e trovarono larghe provviste nei grandi magazzini italiani solo parzialmente distrutti (mancava la mentalità di fare “terra bruciata”). I rifornimenti rimasero comunque un problema. l’inseguimento perse vigore per la stanchezza delle truppe e i contrasti tra generali. Poi ci vollero settimane perché arrivassero sul Piave le artiglierie medie e pesanti necessarie per lo sfondamento del nuovo fronte italiano.

Mi soffermo su questi particolari, senza pretese di novità, per ricordare che Caporetto fu una battaglia che rientra nella norma della Grande Guerra. I tedeschi conseguirono successi maggiori sul fronte russo, poi in Francia nel 1918; gli errori di Cadorna che facilitarono la vittoria austro-tedesca furono in parte ripetuti dai generali inglesi e francesi. Una guerra è fatta di mosse e contromosse, la nuova organizzazione della battaglia offensiva che trionfò a Caporetto e nelle prime offensive tedesche in Francia nella primavera 1918 fallì quando gli avversari capirono come affrontarla, in Italia il 15 giugno, in Francia il 15 luglio 1918. Uno studioso equilibrato come Lucio Ceva ha scritto che “non sarebbe esagerato affermare che Caporetto si tramutò in un costosissimo successo italiano”, il che ci sembra eccessivo, ma fa giustizia di troppe denunce masochiste.

Rimane da ricordare che i generali francesi e inglesi non diedero ai soldati la colpa delle loro sconfitte del 1918.

L’invenzione del tradimento
La rapida progressione dei reparti austro-tedeschi era così imprevedibile e incontenibile da suscitare disorientamento a tutti i livelli, poi dubbi crescenti, infine voci incontrollabili sulla crisi delle truppe. Non è possibile ricostruire il clima convulso di sconforto e speranze dei giorni di Caporetto, l’unica fonte sono i diari degli ufficiali inferiori che Mario Isnenghi ha raccolto e studiato . La loro reazione immediata è il rifiuto, poi il disorientamento, nessuno riesce a capire quanto sta succedendo, anche per la mancanza di informazioni (la rigida censura sulla stampa finì soltanto il 1° luglio 1919). La conseguenza fu la diffusione della leggenda di Caporetto come disastro dovuto in sostanza alla crisi dei soldati (non dei comandi, le accuse a Cadorna, Capello, Badoglio e altri vennero dopo), con molte varianti: tradimento, rivolta mancata, sciopero militare, collasso di truppe logorate dalla trincea, una sorta di ubriacatura collettiva dei soldati, e altro ancora. Se ne trova una traccia anche nella nota Canzone del Piave. Una leggenda che esplose nelle battaglie politiche sulla gestione del conflitto dell’estate 1919 con la pubblicazione dell’Inchiesta su Caporetto , ma continuò a vivere anche quando finirono le polemiche e la guerra divenne indiscussa e poi sacralizzata. Una leggenda strumentalizzata dal regime fascista, che cercava una legittimazione come protagonista della riscossa patriottica contro i traditori e disfattisti di Caporetto. E che continua a pesare oggi come immagine negativa dell’esercito e del soldato italiano.

Impiego il termine di leggenda perché questa visione di Caporetto non ha mai avuto un riscontro concreto nelle vicende della battaglia, né un qualche appoggio documentario. Negli studi di Pieri e Bencivenga, poi Monticone, nella Relazione dell’Ufficio storico dell’esercito, infine nel recente fervore di studi settoriali e documentati, anche con fonti nuove (rinviamo alle comunicazioni di questo convegno) la sconfitta viene ricondotta nei suoi termini militari: nessun tradimento o “sciopero militare”, nessun cedimento dovuto al rifiuto dei soldati. Fu la rapida e inattesa avanzata delle truppe austro-tedesche a determinare la facile resa o lo sbandamento di molti reparti nei primi giorni. Sbandamenti che si moltiplicarono nella ritirata, si dimentica spesso che buona parte degli uomini che ripiegarono in disordine appartenevano alle retrovie dell’esercito, centinaia di migliaia di non combattenti. Si dimentica anche che i primi a perdere il controllo della situazione furono i comandi, Cadorna e i generali, come è stato poi denunciato con ampiezza di dettagli e aspre polemiche.

Torniamo al punto di partenza, il disastro di Caporetto rientra nella norma della guerra, la leggenda che ne addebita la responsabilità ai soldati non ha base scientifica. Vale però la pena di ricordare che il padre della leggenda, il primo a parlare di tradimento delle truppe, fu Cadorna. Anche altri generali, come Badoglio e Caviglia, denunciarono il cedimento di alcune brigate (più tardi fecero ammenda), ma non avevano un accesso ai mass-media. Cadorna invece poteva parlare al governo e all’opinione pubblica con i suoi bollettini, era il maggiore responsabile della guerra, il generale che avrebbe dovuto difendere l’onore dei suoi soldati.

Nei miei primi studi sulla Grande Guerra avevo dato un giudizio piuttosto positivo di Cadorna (si veda la voce che gli ho dedicato nel Dizionario biografico degli italiani), ma allora il primo problema era di difendere il suo operato complessivo da un’altra leggenda, che addebitava alla sua ristrettezza di visione (o peggio) gli orrori della trincea e il fallimento delle offensive italiane (una leggenda dura a morire, anche per lo scarso interesse degli storici politici per i problemi militari). Cadorna non poteva capire la drammatica realtà di una guerra così diversa dalle previsioni, né accettare il fallimento di una guerra offensiva come quella italiana. In questo non era diverso da Joffre e dai generali inglesi o tedeschi, né più colpevole dei governi che fornivano le armi e i soldati per le grandi battaglie senza successo. Quindi non discuto la sua gestione della guerra italiana, ma non accetto la sua proterva tendenza a addebitare i suoi insuccessi al governo e al supposto disfattismo di cattolici, giolittiani e socialisti. Un governo più forte lo avrebbe rimosso già nel 1916 . Nei miei studi ho poi maturato il rifiuto del comportamento di Cadorna verso i soldati, verso i quali fu sempre avaro di riconoscimenti e privo di interesse concreto per le loro condizioni di vita, prodigo invece di critiche e di provvedimenti repressivi troppo noti per doverli ricordare. Un comandante ha il dovere di portare i suoi uomini a morire, ma deve rispettarli, non considerarli carne da cannone su cui riversare la colpa dei suoi insuccessi.

Fu Cadorna a inventare Caporetto come tradimento. Non ebbe mai dubbi. La mattina del 25 ottobre telegrafava al governo: “Alcuni reparti del IV corpo d’armata abbandonarono posizioni importantissime senza difenderle”. E poi diceva al suo fedele collaboratore gen. Gatti: “L’esercito, inquinato dalla propaganda dall’interno, contro cui io ho sempre invano lottato, è sfasciato nell’anima. Tutto, pur di non combattere. Questo è il terribile di questa situazione” . La sera del 25 Cadorna telegrafava a Roma: “Circa 10 reggimenti arresisi in massa senza combattere. Vedo delinearsi un disastro, contro il quale ho combattuto fino all’ultimo”. In realtà Cadorna non aveva informazioni precise sui combattimenti, il suo servizio informazioni era da sempre di scarsa efficienza. E infatti aveva perso il controllo della situazione, tanto da credere (contro quanto dicevano i suoi generali) che tutta la II armata fosse in piena crisi, travolta dal disfattismo, fino a negarle le linee necessarie per la sua ritirata dall’Isonzo. Il 27 ottobre Cadorna emanò il noto bollettino, diffuso all’estero prima che il governo riuscisse a bloccarlo: “La mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia … “. E poi telegrafava al governo: “L’esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i colpi del nemico interno, per combattere il quale ho inviato al governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta” . Dopo di che si può capire come Cadorna avesse perso il controllo della situazione e non fosse in grado di gestire la ritirata di truppe in cui non aveva più fiducia. Il suo bollettino del 27 ottobre rimase come la prima, più dura, autorevole, ma infondata accusa di tradimento rivolta ai soldati italiani.

Nota biografica

Giorgio Rochat (1936) ha studiato e studia la storia militare, coloniale e politica dell’Italia contemporanea.
E’ stato professore di Storia contemporanea nelle Università di Milano, Ferrara e Torino, dove ha insegnato Storia delle istituzioni militari anche presso la Scuola di applicazione dell’esercito. Presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia nel 1996-2000 e della Società di studi valdesi 1990-1999.


I più recenti dei suoi molti volumi sono:


La Grande Guerra 1914-1918, con Mario Isnenghi.

La Nuova Italia, Milano 2000;

Le guerre italiane 1935-1943. Einaudi. Torino 2005.