Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.
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sabato 14 luglio 2012

Unita' d'Italia: Torino, al Consiglio comunale la 'Targa della pace


Unita' d'Italia:
Torino, al Consiglio comunale la 'Targa della pace

13 luglio 2012

Torino, 13 lug. - (Adnkronos) - Il presidente della Sala Rossa, Giovanni Maria Ferraris, ricevera'lunedi'a palazzo Civico il premio 'Targa della Pace' conferito al Consiglio comunale di Torino. Il riconoscimento, istituito dall"Associazione internazionale regina Elena onlus', presieduta dal Principe Sergio di Jugoslavia, vuole essere un sigillo finale alla conclusione delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unita' d'Italia.


La Targa della pace e' nata nel 2007 in occasione di un appello alla pace lanciato ai capi di stato di tutto il mondo da Sergio di Jugoslavia. In quell'occasione la targa fu apposta alle pareti del rifugio capanna Regina Margherita, su una delle cime piu' alte del Monte Rosa.

Negli anni successivi la Targa della pace e' stata conferita a capi di stato personalita' ed enti di tutto il mondo tra cui il Papa Bendetto XVI, il principe Alberto di Monaco, il Senato della Repubblica italiana, la Camera dei Deputati, la Citta' di Santena (in memoria di Camillo Benso Conte di Cavour).

Tratto da : Libero

giovedì 29 dicembre 2011

150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia

150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia


Terminato l’anno 2011, chiuderemo il presente Blog come era nelle nostre intenzioni, che, nato in Agosto del 2009, aveva lo scopo di raccogliere quanto possibile ed interessante circa l’importante anniversario del 150 ° della proclamazione del Regno d’Italia.
Esso rimarrà comunque aperto alla lettura, ma non più aggiornato se non eccezionalmente.

Dobbiamo scrivere che è stato un notevole successo divulgativo, totalizzando in 16 mesi, più di 20.000 visite con oltre 38.000 pagine lette. Soltanto a cavallo della settimana del 17 marzo 2011, festa nazionale, abbiamo avuto un picco di interesse di circa 2.500 visite con 4.500 pagine lette ! 

Il nostro rammarico semmai, va alle celebrazioni stesse, che non hanno smentito le nostre più pessimistiche previsioni sull’argomento.


Il 150° Anniversario dell’Unità Italiana infatti, falsificando la storia sin dal “titolo”, che vide l’Unità italiana raggiunta soltanto nel 1918 al termine della grande guerra, ben 57 anni dopo, il regime repubblicano attuale ha voluto allontanare forse per sempre lo il peso, l’ingombro e il terrore di dover ricordare l’operato e la gloria della Dinastia che l’Italia creò 150 anni fa, riunendo sotto la propria bandiera gli stati regionali precedenti. Casa Savoia.
Nessun erede di questa dinastia è stato ufficialmente invitato ad uno dei numerosi appuntamenti approntati dalle istituzioni, così come i Sovrani e le Sovrane ancora sepolti in terra straniera hanno potuto prendere il posto che gli spetta al Pantheon di Roma.
È stato così compiuto l’ultimo distacco, quello definitivo, tra l’attuale Italia degli scandali e delle crisi di valore, dall’Italia sacra della nostra gloriosa storia secolare, Il prossimo appuntamento infatti, il prossimo anno, tra 10 o tra 50 soprattutto, potrà “contare” esclusivamente su una popolazione “ripulita”, ignorante, non informata o peggio mal informata, che riconoscerà nell’Italia repubblicana, l’unica Italia che ha sempre conosciuto.

Personalmente è per me una grande sconfitta, peraltro prevista nel momento stesso in cui decisi di scendere in campo per combattere questo malcostume, ma sono orgoglioso d’essermi battuto al massimo delle mie possibilità, per lasciare almeno nei miei giovani figli un segno. Questo segno potrebbe un giorno riaffiorare nella loro memoria, e germogliare ! Speriamo davvero !!!

Cosa dire delle “molteplici”quanto disarticolate manifestazioni approntate su tutto il territorio nazionale ? Come abbiamo già scritto sopra, nessuno degli appuntamenti nazionali, ha visto la partecipazione ufficiale di un rappresentante di Casa Savoia, così come le Istituzioni stesse hanno preferito attendere in latitanza fino al 2010 inoltrato l’inizio delle manifestazioni stesse.
Queste infatti sono iniziate soltanto in concomitanza del 150° anniversario della partenza dei garibaldini da Quarto nel maggio del 2010. Certo dovendo occultare l’impegno ed i meriti di un piccolo Re Sabaudo,.non si poteva avviare prima il processo dei festeggiamenti, ricordando al popolo italiano i fatti del 1859 !
Meglio sono andate le decine di manifestazioni locali, soprattutto quelle delle località più piccine e radicate nelle loro tradizioni, come nel meridione del nostro Paese, che hanno tenuto in debito conto la storia, non il politicamentecorretto in voga oggi.
I generale però, nulla di istruttivo o utile a creare una forte identità nazionale. Comunque si cerchi di valutare questa vergogna, pro o contro l’Italia unificata, pro o contro la monarchia Sabauda unificatrice, ci ha rimesso soltanto la storia del nostro Paese, e quindi il peso dei valori nazionali che ogni giorno, ognuno di noi porta per il mondo quale bagaglio personale.

Male poi, anzi molto male, noi del mondo monarchico strettamente delimitato. Non siamo riusciti ad organizzare nulla che, anche per un solo giorno abbia richiamato a livello nazionale, l’attenzione dei media su di noi e la causa che abbiamo a cuore : La monarchia !

Dabbenaggini quali la questione dinastica agitata da gruppi e gruppuscoli, immobilismo generale e altre antiche gelosie interne all’ormai ristrettissimo gruppo di “fedeli” monarchici italiani hanno impedito una apparenza di unità, di fronte comune, nel momento migliore per tornare a proporci ad un popolo, che ormai, non solo non ci ricorda più, ma che, in massima parte, non sa neppure che siamo esistiti.

A fronte di questo, appare davvero ininfluente l’impegno che molti di noi continuano a profondere nella causa, e viene da chiedersi perché si continui a giocare una partita senza speranza apparente, persa diversi decenni fa, quando ancora avevamo un Re, ma già l’avevamo lasciato solo in preda ai nostri egoismi e interessi meschini !

Difficile dare una spiegazione a tanta miopia.
La bella medaglia proposta dall’amico Franco Ceccarelli e realizzata in extremis da alcune organizzazioni monarchiche riunite (Allenaza Monarchica, Movimento Monarchico Italiano e Guardie d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon) ad esempio, sono però una risposta chiara dell’evidenza che, un buon lavoro tendente ad aggregare, non può che portare ad un buon risultato, così come l’encomiabile iniziativa di divulgazione di “Monarchici in Rete” dell’Amico Roberto Tomao.
Cosa avremmo potuto fare e dimostrare quest’anno se avessimo lavorato tutti sullo stesso spartito ?
A nostri posteri, l’ardua sentenza !

Ai lettori di questo sito, i nostri migliori auguri per l’anno che verrà, così come i nostri migliori auguri alla nostra povera Patria, nella speranza che possa sopravvivere ancora, testimoniando nel mondo nonostante questa repubblica, la storia, la cultura, e la civiltà del nostro popolo !
Grazie.

29 dicembre 2011
Alberto Conterio

martedì 31 maggio 2011

L’Italia è unita, soprattutto dai vizi

L’Italia è unita,
soprattutto dai vizi

La patria sotto accusa, dai pamphlet di Del Boca e Aprile all’ironia di Luca Sofri.
Rondolino dice che non siamo una nazione ma dimostra l’opposto.

di Aldo Cazzullo
11 maggio 2011

Accade raramente di leggere un saggio ben scritto e ben argomentato, goderselo sino all’ultima pagina, e alla fine dissentire del tutto dalla tesi, sintetizzata dal titolo: L’Italia non esiste. Eppure è quanto si prova di fronte al libro di Fabrizio Rondolino, che Mondadori manda oggi in libreria (pp. 264, € 17,50).

Non esiste la bandiera, non esiste l’inno, non esiste la politica, non esistono le classi dirigenti, non esiste la sinistra, non esiste lo Stato. E non esiste neppure la nazione. «L’Italia è un’espressione geografica », come la definiva sprezzante Klemens von Metternich. «È una graziosa penisola purtroppo in gran parte rovinata dagli italiani», compresi, par di capire, Brunelleschi e Piacentini, Leon Battista Alberti e Borromini. Va da sé che l’unità d’Italia sia «la più grande catastrofe abbattutasi sulla nostra penisola ». Ma «chiunque sia stato una volta nella vita a Cosenza e a Varese - o in qualsiasi altra coppia di città distanti almeno trecento chilometri tra loro - sa benissimo che l’Italia non esiste». Poi però, dopo l’invettiva iniziale, comincia il libro. Che dimostra in realtà come l’Italia esista eccome, e sia più unita e unificata che mai, sia pure dai vizi piuttosto che dalle virtù.


Rondolino rilegge tutti gli scrittori civili che hanno denunciato la mancanza di virtù civica e politica degli italiani: Dante e Leopardi, D’Azeglio e Prezzolini; Machiavelli, ancora animato da una visione alta della politica, più che Guicciardini, ormai rassegnato all’impossibilità di «cambiare le condizioni del tempo». Depreca lo spirito anti italiano con cui gli intellettuali di ogni secolo hanno vituperato il loro Paese, a cominciare dai torinesi di nascita o di formazione, Gobetti e Gramsci. Ma poi si unisce lui stesso al novero, demolendo le corporazioni, le élites, la Controriforma, i gesuiti, il Risorgimento, la famiglia, la mamma, la Chiesa, la Madonna, insomma tutto quanto concorre a definire l’identità italiana, dai valori agli eventi negativi, compresi il fascismo - «da noi non fu seria neppure la dittatura » - e la mafia, definita «il grande contributo degli italiani alla storia delle organizzazioni sociali». Rondolino è talmente posseduto dalla sua polemica, condotta in modo colto, elegante e divertente nell’amarezza, da non rendersi conto di stare tracciando il ritratto di un Paese più unito, uniforme, omogeneo che mai. L’Italia forse non esiste sul piano dell’efficienza dello Stato e della fiducia nella politica come leva per trasformare la società, riformare l’esistente, cambiare le cose (ma in quale Paese, dopo il fallimento dell’ingegneria sociale di Lionel Jospin e il brusco ridimensionamento di Barack Obama, sopravvive una tale concezione della politica?).

Certo però l’Italia esiste sul piano del costume, delle abitudini, del modo di vivere. L’influenza della Chiesa, la volgarità della televisione, la sconfitta storica del Piemonte sabaudo a vantaggio dell’Italia mediterranea, l’eclisse dei liberali e la spocchia della sinistra: Rondolino ha ragione su tutta la linea. Ma ciò non toglie che questo impasto di bellezza e di vizio sia oggi più amalgamato che mai. Che siano esistiti italiani di frontiera, da Cavour a De Gasperi, i quali alla guida delle loro generazioni - le generazioni del Risorgimento e della Resistenza, nelle varie forme che la Resistenza assunse - seppero unire e riscattare il Paese. E che oggi, come si è visto il 17 marzo, gli italiani siano più legati all’Italia di quanto noi tutti, Rondolino compreso, amiamo riconoscere. Eppure la vena anti italiana è stata di gran lunga dominante in questo 150˚compleanno. Terroni di Pino Aprile ha germinato una replica nordista, identica fin dalla forma grafica, Polentoni di Lorenzo Del Boca. Contro il Risorgimento si sono espressi Giordano Bruno Guerri e il cardinale Biffi, un giornalista di sinistra come Giovanni Fasanella e uno di destra come Gigi Di Fiore, neoborbonici per cui il Risorgimento fu di troppo e neomazziniani per cui il Risorgimento non fu abbastanza (è la logica del Noi credevamo di Martone e del romanzo di De Cataldo, I traditori, annunciato nella quarta di copertina come «il lato oscuro del Risorgimento»).

Anche il saggio di Luca Sofri (appena pubblicato da Bur, pp. 188, € 10) ha un titolo - Un grande Paese - solo in apparenza consolatorio. In realtà, sostiene Sofri, «un grande Paese è la definizione che vorremmo poter dare dell’Italia, senza che ci scappi da ridere». Però, a differenza di Rondolino, che ritiene l’Italia immodificabile e chiude il suo libro raffigurandola apocalitticamente come un Titanic che giace da un pezzo sul fondo dell’oceano gelato, Sofri si pone il problema di come sarà il nostro Paese tra vent’anni, e di chi lo cambierà.

Lavora quindi sulle riflessioni della contemporaneità: Michele Serra, Goffredo Fofi, Antonio Polito, Alessandro Baricco. E giunge alla conclusione che l’individualismo italiano non è senza riscatto, che «pensare a un Noi non implica inevitabilmente una vocazione minoritaria. Sono le dimensioni di quel Noi a dire se la vocazione è minoritaria o maggioritaria, e soprattutto le dimensioni che a quel Noi vogliamo dare»: solidarietà, amore per il prossimo, vicinanza agli oppressi, fiducia nella possibilità di una politica diversa. Al punto che il libro, molto critico sull’Italia di oggi, si chiude con un ideale discorso di un presidente del Consiglio nel 2031, che pare davvero l’Obama italiano: «Possiamo farcela. E lo faremo ».

Tratto da : www.corriere.it/

mercoledì 20 aprile 2011

Si incolpa il passato per difficoltà che riguardano il presente

Polemiche : L'alibi del «Risorgimento fallito»
Nonostante i continui attacchi, i valori dell'unità nazionale restano irrinunciabili.
Si incolpa il passato per difficoltà che riguardano il presente

Giuseppe Galasso
18 aprile 2011

Nei termini oggi correnti si può ben parlare di «Risorgimento negato». Perché? Se ne afferma il «fallimento» come cosa scontata. Se ne disconosce la legittimità storica, come imposto con la forza, da esigue minoranze intellettuali e ideologiche, a popolazioni ignare e riluttanti. Si dice che l'unità nazionale italiana è stata una forzatura, e che l'estensione del principio nazionale all'intera Italia fu un'invenzione risorgimentale, rispondente non a un vero spirito e pensiero nazionale, bensì alla «ideologia italiana»: arbitraria costruzione, per l'appunto, ideologica, ossia di falsa e falsata coscienza, tornata a pro del solo Piemonte, che sovvertì e sottomise gli altri Stati pre-unitari. E si potrebbe continuare.

Marcio il seme, ancora più marcio il frutto. Allo Stato nato dal Risorgimento si fa prima a dire che non viene riconosciuto quasi nulla di buono che a elencare le colpe e i vizi ad esso addebitati. Nell'antifascismo e dopo il fascismo si esaltavano i «valori del Risorgimento», ma senza molte specificazioni. Si era, inoltre, aperta già allora una discussione critica e negativa della storia italiana: tutta un fallimento, stretta tra un rozzo opportunismo e conformismo («Franza o Spagna») e uno storico, deteriore condizionamento (inefficienza, corruzione, doppia morale, formalismo, inquisizione... insomma Spagna e Chiesa): quasi una gigantografia del giudizio di Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana sull'Italia dal Rinascimento in poi. Solo che in De Sanctis alla «decadenza» seguiva il «rinnovamento», mentre il quadro tracciato alla caduta del fascismo era tutto negativo (nell'Antistoria d'Italia di Fabio Cusin il fascismo era quasi una vocazione storica degli italiani).

Poi venne la lunga stagione del «gramscismo» (che non fu la stessa cosa che Antonio Gramsci), con il suo giudizio, molto legato alle vicende e alle lotte post-1943 e limitativo, se non negativo, sui frutti del Risorgimento. Il gramscismo via via si dissolse, già con le polemiche liberali degli anni Cinquanta e Sessanta, poi con le grandi tesi di Rosario Romeo sullo sviluppo industriale in Italia. La sua eredità attuale è marginale, ma il giudizio negativo sull'Italia unita è rimasto.


Le celebrazioni del 1961 videro, comunque, una generale convergenza e consenso, con poche dissonanze, certo anche per lo slancio e il progresso dell'Italia di allora. Invece, con la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, si è giunti a una revisione del Risorgimento e, ancor più, a un vero processo all'unità, con evidenti aspetti politici (non dovuti, però, solo alla Lega Nord). Si tratta, infatti, più che di un problema storico, di una crisi dell'identità e della coscienza nazionale in tutti i loro aspetti, che coinvolge e travolge molto di più del Risorgimento e dell'unità. Ed è, anche, fenomeno non solo italiano, bensì europeo (si pensi alle «negazioni» della rivoluzione francese o dell'idea di nazione), ma per l'Italia, dato lo spessore della sua crisi, di misure e implicazioni ben più radicali.

Siamo passati così dal Risorgimento fatto più contro i contadini e le classi popolari che contro Austria, Chiesa e conservatori, al Risorgimento fatto contro gli italiani, specie del Sud, con larghe nostalgie per la vecchia Italia (tranne che per lo Stato pontificio!); e siamo pure passati a una sensazione negativa per la storia del Paese e delle sue varie parti, ben più diffusa delle critiche degli anni Cinquanta e Sessanta.

E, tuttavia, pare che, sia pure così, del Risorgimento si stia acquisendo una maggiore percezione, anche storico-emotiva. Sono, intanto, venuti meglio in luce quei «valori del Risorgimento», prima enunciati, ma non molto esplicitati, perché dati per noti e impliciti: indipendenza e unità (strettamente connesse), libertà (la «libertà liberatrice»), modernità (economica e sociale, della cultura e dell'istruzione), Stato laico e senso dello Stato.

Il Risorgimento è fallito? Certo, lo Stato è sempre un mastodonte affannoso, c'è il dualismo, c'è tanto altro che non si vorrebbe né vedere, né sentire. Ma resta il grande successo, che ha portato il Paese fra i dieci più avanzati del mondo e ha costruito uno Stato col quale sono incomparabili, nell'idea e nel fatto, quelli pre-unitari. Certo, stiamo ancora costruendo l'Italia, ma gli italiani c'erano, e ci sono oggi, molto di più, per cui, se difficile fu fare l'unità, molto più difficile appare il disfarla.

Il Risorgimento è lontano, non parla più agli italiani di oggi, dicono vari storici. Ma già Romeo nel 1961 aveva postulato per l'Italia post-fascista una soluzione di continuità col Risorgimento. Il che è poi normale: non passa invano un secolo e mezzo.

Un secolo e mezzo è, però, anche una bella durata, che ha collaudato e legittimato la nuova Italia. E, infatti, il problema non sono il Risorgimento e l'unità; siamo noi. Il «Risorgimento negato» è un più fedele specchio non del passato, bensì di un problematico e negativo presente. Abbiamo scaricato e scarichiamo su quel passato i problemi di oggi e le relative responsabilità. Certo, abbiamo altri valori, oltre quelli risorgimentali, né si poteva, anche in ciò, restare al 1861. E poi c'è l'Europa, la globalizzazione. Ma è lecito credere che per l'Italia i valori risorgimentali formino tuttora un nocciolo duro irrinunciabile e insostituibile, prioritario rispetto a tutto, anche se nulla ora indica che la stagione del «Risorgimento negato» stia per finire.


giovedì 24 marzo 2011

San Severo : la monarchia il tema centrale !

San Severo, ancora un incontro sull’Unità d’Italia

Lunedì 21 Marzo

SAN SEVERO – Sarà la monarchia il tema centrale dell’incontro fissato per giovedì 24 marzo alle 18 presso la sala “Nino Casiglio” della Biblioteca comunale “Alessandro Minuziano”, che si svolgerà nell’ambito delle iniziative volute dal comune per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Si intitolerà “Il ruolo della monarchia nel Risorgimento Italiano” e a presentarla sarà Raffaele Colapietra, dell'Università degli Studi di Salerno. 


L’organizzazione della conferenza è stata curata dal Centro di Ricerca e Documentazione per la Storia della Capitanata, di cui è presidente Giuseppe Clemente. Tutta la fase operativa per la realizzazione della composita iniziativa è curata dai dipendenti in servizio presso la Biblioteca Minuziano, dagli operatori del Consorzio LIBERO e dalle due funzionarie regionali provenienti dal “CRSEC” di San Severo. La Responsabile del procedimento operativo e amministrativo che sovrintende alle varie iniziative è la Direttrice della “Minuziano” Concetta Grimaldi con la Dirigente di Settore, Enza Cicerale.

Tratto da : Daunianews.it

venerdì 18 marzo 2011

Celebrazioni 150° - I valori assenti

Celebrazioni 150° - I valori assenti

18 Marzo 2011
di Arturo Diaconale

Ma quale Italia unita abbiamo celebrato nella giornata del 17 marzo? E’ bene non sfuggire a questo interrogativo. Per fare in modo di dare un senso concreto e comprensibile a celebrazioni che altrimenti sono destinate a risuonare inesorabilmente come falsa e vuota retorica. La risposta si ottiene per esclusione.
Non abbiamo celebrato l’Italia di Vittorio Emanuele II. A dispetto del fatto che il 17 marzo 1861 il Parlamento di Torino non proclama l’unità ma l’assunzione al trono dell’Italia unita del monarca sabaudo, le celebrazioni sono state contrassegnate dalla rimozione di un personaggio dal ruolo determinante nelle vicende del Risorgimento.


Tutti hanno dimenticato che il “re galantuomo” guadagnò questo titolo perché nel 1849 ebbe la forza e l’intuito di non seguire l’esempio degli altri regnanti italiani e di non cancellare lo Statuto promulgato dal padre Carlo Alberto sull’onda delle rivolte scoppiate nella penisola per sollecitare l’indipendenza nazionale ed una Costituzione liberale.
Se Vittorio Emanuele avesse piegato la testa di fronte alle richieste del maresciallo Radetzky e si fosse comportato come Pio IX o Ferdinando di Borbone rinunciando a legare il futuro di Casa Savoia al sogno dell’Unità nazionale, il Risorgimento avrebbe assunto una piega completamente diversa.
Forse migliore, di sicuro meno rapida e più densa di sacrifici. Ma se l’Italia oggi festeggia i suoi 150 anni lo deve anche a Vittorio Emanuele II. Che però, probabilmente a causa di una discendenza di cui non porta certo la responsabilità, non ha figurato nelle celebrazioni.
A consolazione del “re galantuomo” va rilevato che non è stato il solo ad essere stato rimosso. Una sorta analoga è toccata anche a Camillo Benso di Cavour, a Giuseppe Garibaldi ed a Giuseppe Mazzini. Nelle celebrazioni ufficiali i tre “Padri della Patria” hanno avuto collocazioni del tutto marginali tese ad evidenziare più gli aspetti pittoreschi o semplicemente oleografici dei tre personaggi che il significato politico e morale delle loro azioni.
Ma l’Italia illiberale avrebbe mai potuto riconoscere che il capolavoro di Cavour non fu soltanto diplomatico ma fu il frutto di una solida e profonda fede nei valori liberali? E l’Italia che vive nel ricordo e nella esaltazione della guerra civile avrebbe mai potuto riconoscere che il più grande merito di Giuseppe Garibaldi fu di aver resistito alla fortissima tentazione, dopo la conquista del regno delle due Sicilie, di scatenare la guerra civile contro la monarchia sabauda in nome di una repubblica che avrebbe avuto il marchio del suo nome? Ed, infine, l’Italia che non accetta il principio di responsabilità, che sfugge agli obblighi che le vengono dalla sua storia e la sua collocazione geografica, che non ha il senso del proprio passato e quindi l’incapacità di fondare su di esso la speranza del futuro, avrebbe mai potuto dare il giusto risalto a Giuseppe Mazzini, cioè all’uomo che più di ogni altro ha ricordato agli italiani che senza la consapevolezza dei propri doveri si è destinati ad essere dominati, sfruttati ed umiliati?
L’assenza sostanziale di queste quattro figure, o la loro assoluta marginalizzazione, non stupisce.
Vittorio Emanuele II, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini rappresentano valori e principi che la cultura ancora dominante dell’Italia attuale non conosce o, peggio, continua ostinatamente a negare.
Non ci si deve stupire, allora, le celebrazioni sono apparse retoriche e poco sentite.
Non si è trattato di una dimostrazione di scarso patriottismo o di secessionismo latente. Niente affatto. Perché mai come in questo periodo la stragrande maggioranza degli italiani è consapevole ed orgogliosa della propria identità. Si è trattato di un ammonimento a chi ha pensato di celebrare l’unità d’Italia senza i valori di libertà, di umanità e di responsabilità da cui è nata.

Tratto da : L’Opinione.it

lunedì 14 marzo 2011

«Regno fm», emittente neoborbonica

Barra, Bennato e mail anti-Savoia
La sfida (on air) a Radio Padania
Guaglione: ecco «Regno fm», emittente neoborbonica

di Alba Di Palo
14 marzo 2011

«Tu piemontese, ’nu miezo francese, stive ’nguaiato fra diebete e spese. Sì addeventato grand’ ommo e sovrano cu ’e sorde d’ ’e banche napulitane». È la strofa di «Malaunità», canzone napoletana e battagliera. È la rabbia urlata contro i violenti invasori del Meridione: i Savoia. A pochi giorni dal 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia è sufficiente un clic per incontrare questa ribellione a scoppio ritardato. Basta connettersi al sito www.regno.fm, una webradio che inneggia al Regno delle due Sicilie, ai Borbone e alla cultura di un Sud glorioso, vittima sacrificale del patriottismo sabaudo. La webradio trasmette on line — da qualche settimana — canzoni e informazioni rigorosamente borboniche. «Diffondiamo notizie che i libri di storia, di regime, hanno finora sottaciuto. Come giornalista ed editore ho sentito il bisogno morale di dare voce a vicende rinnegate», dice Paolo Guaglione ideatore della «radio del bel Reame», com’è scritto sull’homepage. Papà di due bambine, 45 anni, di Barletta, città da cui si irradiano via web le news anti-risorgimentali, Guaglione si definisce borbonico e orgoglioso dei trecento contatti giornalieri della radio. «Arrivano tantissime mail piene di complimenti», commenta mentre sulla scrivania zeppa di libri, fogli, penne e telefonini, cerca i dati di ascolto.

«Ci seguono anche dall’estero: New York, Parigi e persino dall’Australia». Il palinsesto della webradio è strutturato in base al genere musicale in programmazione: si va dalla musica napoletana antica, ai testi di Concetta Barra ed Eugenio Bennato. A fare da intermezzo, piccoli spazi informativi legati alla storia del regno di Napoli, sfregiato e distrutto dall’arrivo dell’esercito sabaudo. Tutte le notizie sono precedute da una voce femminile che, con tono dolce, tuona: «A scuola non mi hanno fatto sapere che...». «Certo — dichiara Guaglione — a scuola tante cose non sono state insegnate mentre Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele, tre massoni, sono stati presentati come eroi che hanno liberato il Sud dalla tenaglia borbonica. Non è andata così. A Napoli si viveva bene, nessuno andava via. E dal Nord scendevano al Sud per lavorare e stare meglio». Al contrario di come avviene adesso. Guaglione è il solo a occuparsi della webradio che presto però, avrà una redazione. Perché oltre a Internet e alla radio è previsto un progetto editoriale più ampio che coinvolgerà anche la televisione «per restituire dignità a un popolo privato della memoria», rincara l’editore mentre mostra il suo iPad su cui c’è l’immagine «della mia patria vista dall’alto»: è l’Italia meridionale fotografata dal satellite, il resto della Penisola non c’è. Ed è un po’ un controsenso per lui che edita anche un canale satellitare che, ironia della sorte, si chiama W l’Italia channel.

«La mia patria è questa», insiste mostrando l’iPad e continua: «È così non solo per me. All’estero quando si dice di essere italiani, gli stranieri sorridono e dicono pizza, sole, mare e mandolino, mai Tarvisio o la polenta. E questo conferma che l’Italia siamo noi, il Sud», ribadisce Guaglione. In ufficio ha persino la macchina per il caffè Borbone. «È stata una piacevole sorpresa», ammette. Qualcosa però non torna: se i Borbone avevano creato un regime con un welfare efficacissimo, se il popolo stava bene, perché i soldati reali non difesero il loro regno? «Perché le guardie furono corrotte dai Savoia e da soli i contadini che divennero briganti non riuscirono a frenare l’incursione», spiega Guaglione. «I Savoia rubarono ben 432 milioni di vecchie lire dal banco di Napoli». Beh, ma dopo l’unificazione del Paese quei soldi erano del re d’Italia.

«No — ribatte — quei soldi non furono usati per far crescere il Paese ma solo per rimpinguare le casse piemontesi, in rosso da tempo». La visione della storia italiana qui, nella sede della webradio alla periferia della città della disfida franco-italiana, ha il sapore di un romanzo tragico dove le vite dei contadini si intrecciano alla crudeltà dell’esercito sabaudo che «rase al suolo paesi come Pontelandolfo e Casalduni non prima di aver stuprato donne e ucciso bambini», racconta Guaglione. E allora il 17 marzo come lo trascorrerà? «Isserò una bandiera a lutto», dice. La chiusura però è repubblicana: «La mia festa patriottica è quella del 2 giugno. Quella e basta».

Tratto da : Corriere del Mezzogiorno

Nota del Web Master : 

L'Articolo termina con queste parole : «Isserò una bandiera a lutto», dice. La chiusura però è repubblicana: «La mia festa patriottica è quella del 2 giugno. Quella e basta». ...ecco appunto, giusto un repubblicano !

lunedì 28 febbraio 2011

17 marzo, riti e modernità

17 marzo, riti e modernità

Dalla Lega a Durnwalder, così i «nemici» hanno aiutato a rendere il 17 marzo una ricorrenza vera

di Beppe Severgnini
20 febbraio 2011

Indro Montanelli sosteneva che a Bossi, un giorno, avremmo dedicato monumenti nelle piazze italiane, di fianco a quelli di Giuseppe Garibaldi. Lo considerava, infatti, un patriota involontario. Esaltando l'inesistente Padania, la Lega ci ha obbligati a ragionare sull'Italia esistente.
Fingendo di disprezzare la nazione, ha risvegliato il nostro sentimento nazionale (poco a tanto che sia). A Umberto Bossi ha dato una mano Roberto Calderoli. Uno e l'altro persone più ragionevoli di quanto vogliano far credere: lo prova il fatto che la Lega s'è tenuta lontana dalla violenza. Definendo «una follia costituzionale» la festa nazionale del 17 marzo, il ministro della Semplificazione - nomen omen - ne ha decretato il successo.


Il nostro tribalismo è talmente radicato che, per combinare qualcosa, dobbiamo trovare un avversario. Il 150° dell'Unità si trascinava tra comitati comatosi, mostre periferiche e i discorsi eccitanti come tisane. Gli avversari dell'epoca - gli austriaci, la Chiesa cattolica - sono buoni amici dello Stato italiano. La sinistra, a lungo sospettosa del tricolore, oggi lo sventola con convinzione. Uno sbadiglio gigantesco stava per coprire l'anniversario. Ci hanno pensato l'altoatesino Luis Durnwalder e l'europarlamentare Mario Borghezio: un monumento anche a loro, per favore. Il primo ha spiegato che «il gruppo linguistico tedesco non ha nulla da festeggiare»; il secondo ha distillato perle di saggezza radiotelevisiva. «Il festival di Sanremo è una festa padana», ha spiegato a Radio 24. Poi, turbato dall'inno all'inno (di Mameli), ha cambiato idea: «Benigni? Peggio di Ruby. Fa semplicemente schifo il prostituirsi di un artista alle esigenze della retorica di una parte del Paese contro l'altra».

A questo punto, direi, è fatta. Il 17 marzo si avvia a essere una vera festa, nuova e sentita. Tenessimo i negozi chiusi, potremmo approfittarne per pensare. Un'attività che non ha conseguenze immediate sul prodotto interno lordo; ma non fa mai male. Potremmo trovare, per esempio, un modo originale di celebrare insieme un giorno fondamentale della nostra storia comune. Il 25 aprile è la festa del sollievo, il 2 giugno il sigillo di una decisione civile, il 4 novembre la commemorazione di una vittoria militare. Il 17 marzo dovrebbe essere il ricordo gioioso di un momento epico (diciamolo: non sono molti, nella nostra storia).

Epico: come la rivoluzione francese, l'indipendenza americana, la vittoria inglese contro i nazisti. L'Italia a metà dell'Ottocento era rock. Andate a Pavia, visitate la mostra «Le università erano vulcani». Guardate i ritratti dei fratelli Cairoli - quattro su cinque caduti per la patria che sognavano - e vedrete ragazzi italiani: stesse facce, stessi occhi, stesse espressioni. La casa della mamma Adelaide - piazza Castello, angolo strada Nuova - era la base di Garibaldi in una città che Ugo Foscolo aveva infiammato, anni prima, declamando «O italiani, io vi esorto alle storie perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare...». Un riassunto folgorante della nazione di ieri e di oggi.
Una nazione che Roberto Benigni sembra aver svegliato, uscendo prepotentemente dal recinto dei Five Millions Club (i cinque milioni di italiani che acquistano i quotidiani, leggono qualche libro e discutono di questi temi). Venti milioni di telespettatori sono tanti. Ma ricordiamoci che siamo una nazione specializzata in buone intenzioni che quasi mai riusciamo a trasformare in buoni comportamenti (anche perché ora non ce lo chiede più nessuno, mentre prima ce lo chiedevano nel modo sbagliato).

Ringraziare Benigni e Bossi, idealmente uniti nel loro diverso patriottismo, è un buon punto di partenza. Ma non basta. Bandiere ne abbiamo sventolate molte; balconi ne abbiamo addobbati; fasce tricolori ne abbiamo viste tante, di traverso a petti non sempre meritevoli. Il rischio di rivedere il già visto, giovedì 17 marzo, è forte.
Perché non portare allora una coccarda tricolore, quel giorno? Francesi, inglesi, tedeschi e americani, in occasioni particolari, mettono all'occhiello bandiere, distintivi e papaveri. È un segno collettivo che denota una scelta personale: le bandiere si guardano, una coccarda s'indossa. I leghisti di stretta osservanza non lo faranno? Non è un problema. Loro, come abbiamo visto, aiutano in altro modo.

Tratto da : www.corriere.it/

sabato 26 febbraio 2011

Non si celebra l’unità d’Italia dimenticando i Savoia

Non si celebra l’unità d’Italia dimenticando i Savoia

Dal “Corriere della Sera” La lettera del giorno
30 gennaio 2011

Ho letto con sottile piacere «Lettere al figlio» di Lord Chesterfield, manuale educativo in forma epistolare che dà uno spaccato ineguagliabile della vita inglese ed europea del 1700. Ma davvero questo libro è stato il vademecum educativo dei rampolli delle classi abbienti di tutta Europa per molti decenni?
Cesare Cerri


Risponde Sergio Romano

Caro Cerri, Nell’Inghilterra della seconda metà del ’700 le lettere che Chesterfield indirizzò al figlio, al figlioccio e ad altri personaggi del tempo, ebbero per il suo Paese l’importanza che il «Cortegiano» di Baldassar Castiglione ebbe nel Cinquecento e nel Seicento per l’Italia e per l’Europa. Alla loro reputazione giovò anzitutto la statura e la fama del personaggio: una grande famiglia, una impeccabile educazione umanistica, una lunga frequentazione delle corti europee, un brillante servizio pubblico a corte, in Parlamento e al governo, i buoni risultati ottenuti in alcuni negoziati internazionali e la saggia amministrazione dell’Irlanda di cui fu Viceré dal 1745 al 1746. Al figlio, principale destinatario della sue lettere, Chesterfield raccomandò le regole di un galateo adatto soprattutto a giovani di buona famiglia, dotati di una considerevole fortuna e destinati al servizio dello Stato. Gli suggerì di spendere liberalmente ma saggiamente, di avere una stabile relazione amorosa e di scegliere il migliore maestro di ballo. Fu questa probabilmente la ragione per cui un grande erudito inglese, il dottor Samuel Johnson, disse di Chesterfield, sprezzantemente, che insegnava «la moralità di una prostituta e le maniere di un maestro di ballo ». Ma il suo giudizio fu ingiusto e forse dettato da una certa irritazione per la condiscendenza con cui era stato trattato da Chesterfield quando cercava finanziamenti per la compilazione del suo grande «Dizionario della lingua inglese». In realtà le lettere al figlio insegnano soprattutto moderazione, autocontrollo, senso dell’equilibrio, distacco dalle passioni e dalle emozioni. Appare così sulla scena inglese un personaggio elegante, altero, ironico che verrà definito sommariamente «snob». Ma certe manifestazioni di snobismo sono lo scudo con cui l’uomo di qualità attraversa le burrasche della vita, insomma una versione moderna dello stoicismo. Quando era ormai vecchio, sordo e confinato nella sua casa, Chesterfield disse di sé: «Sono morto da due anni, ma ho scelto di non darne comunicazione ». La serietà della sue raccomandazioni è dimostrata da una lettera del 1749 scritta al figlio mentre questi si apprestava a visitare Berlino e Torino. Gli disse di approfittare del soggiorno nella capitale prussiana per studiare attentamente lo stato delle forze armate e le riforme legislative introdotte dal Grande Federico, «senza dubbio il più capace dei principi europei». E per la tappa a Torino gli suggerì di fare visita a «the next ablest monarch to that of Prussia», al monarca che per capacità veniva subito dopo quello della Prussia. Era Carlo Emanuele III, figlio di Vittorio Amedeo II e re di Sardegna dal 1730 al 1773. Federico e Carlo Emanuele appartenevano alle due famiglie - Hohenzollern e Savoia - che poco più di cento anni dopo avrebbero unificato la Germania e l’Italia. La lettura di Chesterfield dovrebbe ricordarci che non si celebra l’unità d’Italia dimenticando Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II.