Per festeggiare i 150 anni dell'Italia bisogna ricordarsi chi sono gli italiani
Scritto da Pietro De Marco
28 settembre 2009
Le discussioni di queste settimane sull’Italia unita, condotte un poco à batons rompus, rappresentano comunque il realistico inizio di percorso verso il marzo 2011, l’inizio che ci meritiamo. Se non soddisfa la discussione sulla “utilità dell’unificazione” per questi o quegli italiani, accompagnata dal consueto cui profuit? – insomma dalla grossolana tesi della conquista liberal-monarchica dell’Italia centro-meridionale e insulare per il suo sfruttamento, tesi di cui (va ricordato, e ricorda bene la mia generazione) è stata maestra nei decenni postbellici la saggistica meridionalistica, comunque antiliberale e antirisorgimentale (poi antistato), sia comunista sia ex-azionista – fa anche sorridere sentir ripetere che fu sì creato, e positivamente, uno stato ma non una nazione, perché una nazione “la crea solo una Rivoluzione di popolo”.
Anche i cultori delle “insorgenze” coltivano questo mito e, poiché le “rivoluzioni di popolo” furono antipiemontesi, ne ricavano che il popolo rivoluzionario fu contro l’Unità. Poco utile guardare ad un secolo e mezzo, o due, di storia d’Italia con risentimenti terzomondistici (‘il Nord colonizzatore è stata la causa del nostro declino’) o con repliche (settentrionali) del genere “il fardello dell’uomo bianco”. Ma anche le nostalgie di palingenesi attesa e mancata, nel “primo” come nel “secondo” Risorgimento, non portano a niente.
Se posso proporre alla discussione alcune tesi, suggerisco le seguenti, con una premessa: l’unificazione degli stati italiani in relativo declino, rispetto allo straordinario ruolo e prestigio europeo goduto in età moderna (sia detto contro la tesi della “decadenza”), fu un atto di ragione, pensato e condotto a termine secondo il principio di realtà, tenendo conto, cioè, della nuova configurazione delle potenze europee, delle loro dimensioni e ordinamenti, insomma dei prerequisiti di esistenza e autodeterminazione di uno stato moderno. Ecco le tesi.
a. Se un’Italia culturale, quindi degli “italiani”, di spessore storico bimillenario non fossero esistiti (che è, poi, il fondamento delle rivendicazioni risorgimentali) l’unità nazionale non sarebbe stata realizzabile, anzi nemmeno pensabile. Con Aldo Schiavone, Italiani senza Italia, ma per ricavarne implicazioni diverse, sembra dunque più corretta la formula che vede la preesistenza degli italiani all’Italia (unita), rispetto alla celebre formula adespota ‘fatta l’Italia bisogna fare gli italiani’. Ma si trattava, e per molti interpreti si tratta ancora, di una Italia a più culture, a più “nazioni”; d’altronde la nazione non è solo quella nazionalisticamente costruita nell’Ottocento europeo e latinoamericano. I risorgimentali, seguiti coerentemente dalle culture liberali postunitarie e poi dalle nazionalistiche, si avvalsero dell’uomo “italiano” esistente, e legittimante l’atto unitario, ma lo vollero trasformare nell’individuo ideale, nel civis ovunque identico, dello stato-nazione. “Bisogna fare gli italiani” è, nel suo significato meno banale, un profondo errore diagnostico e prognostico. In realtà era vero, e accadde, l’inverso. Peccato che anche di questa formula (dati gli Italiani fu fatta l’Italia) si dia subito una versione deprecatoria; l’Italia “costruita” sarebbe stata un fallimento, zavorra di cui sbarazzarci.
Dagli Italiani all’Italia, ai “nuovi italiani” e/o alla “Nuova Italia”. Una contraddizione tra fatto fondante e idealità cancellanti, tipica delle borghesie liberali urbane. Una visione a mio avviso selfdefeating che estirpa il fondamento storico-culturale della stessa azione unitaria, analoga a quella che sta caratterizzando in questi decenni la “costruzione” astratta, e fallimentare, di un Europa che invece esiste già, da non annullare ma da cui (tutta) partire.
b. Di tale contraddizione è espressione conseguente, anzi esemplare e ancora cruciale, la tentata decattolicizzazione dell’Italia unita, perseguita in molti modi dalle élites liberali postunitarie che cercarono di protestantizzare gli italiani, dalle culture socialistiche e dai nazionalismi che li vollero atei o fedeli di una religione civile (progetti cui la soluzione pattizia del 1929 mise obiettivamente fine).“Fare gli italiani” ha significato, infatti, e significa per molti sottrarli alla formazione e al sentire cattolici, alla storia. Sulla storia cattolica dell’età moderna (XVI-XVII secolo) furono così proiettate le radici e le responsabilità, etiche e politiche, intellettuali e sociali, di ogni male d’Italia. Sulla scorta delle polemiche illuministiche e della controversistica protestante, di molto precedente.
La frattura tra il presente-futuro della “Nuova Italia” e il suo passato moderno (in cui, talvolta, l’eredità di De Sanctis fa includere anche la “decadenza” civile e morale del Rinascimento!), e la condanna del passato cattolico negli istituti di memoria degli Italiani, sono la rivoluzione operata dal nostro Risorgimento. Se il Risorgimento fu una “rivoluzione mancata”, o al massimo una rivoluzione (con deliberato ossimoro) moderata, questa alterazione eversiva della memoria culturale, essenziale all’identità comune e al comune sentire della Patria, vi fu certamente.
c. Prima delle “due Nazioni” generate dalla guerra civile del secondo Risorgimento vi è, dunque, la frattura sprezzante, e l’incomunicabilità, tra due narrazioni identitarie, quella della continuità civile e cattolica delle singole “nazioni” italiane preunitarie, persistente nell’opposizione cattolica dell’Italia unita, e quella della discontinuità proclamata dalle élites del nuovo Stato-Nazione, che si alimentavano di una volontà pura di Nation building. O meglio: la narrazione della discontinuità salva la continuità della Nuova Italia con la sola memoria di ogni minoranza eretica, di ogni vittima dei poteri politici e religiosi preunitari.
Ma anche questa narrazione, di nuovo presente nella reviviscenza di studi e polemiche sugli eretici italiani del Cinquecento (che siano loro “la migliore cultura italiana che trovava ospitalità fuori d’Italia” evocata da Prosperi tempo fa?) o sul caso Galileo, appartiene alla storia della volontà decattolicizzante delle élites laiche; perché non è certo sull’eredità “eretica” dei Sozzini o del Renato, di Savonarola o di Galileo, che si costruiscono gli istituti di uno stato moderno. Ma vi si definiscono degli istituti di memoria, come io li chiamo, con exempla che dovrebbero polarizzare il sentire comune, e fondare l’amor di Patria.
Finché questa pretesa, e utopia dualistica, di “nuova nascita”, di reformatio (la “riforma intellettuale e morale”), non verranno autocriticamente accantonate (anche nelle loro versioni moderate, subìte dal cattolicesimo liberale), è mia pertinace convinzione che la dominante discontinuista della nostra memoria identitaria, così contraria ai fatti (come armonizzare la deprecazione dell’età moderna, controriformistica e barocca, col mirabile arredo urbano, sacro e civile, dei centri storici, scenario dei nostri passi quotidiani?), farà avvertire estrinseca e inerte, impolitica, ogni celebrazione dell’Unità e dei Risorgimenti.
Scritto da Pietro De Marco
28 settembre 2009
Le discussioni di queste settimane sull’Italia unita, condotte un poco à batons rompus, rappresentano comunque il realistico inizio di percorso verso il marzo 2011, l’inizio che ci meritiamo. Se non soddisfa la discussione sulla “utilità dell’unificazione” per questi o quegli italiani, accompagnata dal consueto cui profuit? – insomma dalla grossolana tesi della conquista liberal-monarchica dell’Italia centro-meridionale e insulare per il suo sfruttamento, tesi di cui (va ricordato, e ricorda bene la mia generazione) è stata maestra nei decenni postbellici la saggistica meridionalistica, comunque antiliberale e antirisorgimentale (poi antistato), sia comunista sia ex-azionista – fa anche sorridere sentir ripetere che fu sì creato, e positivamente, uno stato ma non una nazione, perché una nazione “la crea solo una Rivoluzione di popolo”.
Anche i cultori delle “insorgenze” coltivano questo mito e, poiché le “rivoluzioni di popolo” furono antipiemontesi, ne ricavano che il popolo rivoluzionario fu contro l’Unità. Poco utile guardare ad un secolo e mezzo, o due, di storia d’Italia con risentimenti terzomondistici (‘il Nord colonizzatore è stata la causa del nostro declino’) o con repliche (settentrionali) del genere “il fardello dell’uomo bianco”. Ma anche le nostalgie di palingenesi attesa e mancata, nel “primo” come nel “secondo” Risorgimento, non portano a niente.
Se posso proporre alla discussione alcune tesi, suggerisco le seguenti, con una premessa: l’unificazione degli stati italiani in relativo declino, rispetto allo straordinario ruolo e prestigio europeo goduto in età moderna (sia detto contro la tesi della “decadenza”), fu un atto di ragione, pensato e condotto a termine secondo il principio di realtà, tenendo conto, cioè, della nuova configurazione delle potenze europee, delle loro dimensioni e ordinamenti, insomma dei prerequisiti di esistenza e autodeterminazione di uno stato moderno. Ecco le tesi.
a. Se un’Italia culturale, quindi degli “italiani”, di spessore storico bimillenario non fossero esistiti (che è, poi, il fondamento delle rivendicazioni risorgimentali) l’unità nazionale non sarebbe stata realizzabile, anzi nemmeno pensabile. Con Aldo Schiavone, Italiani senza Italia, ma per ricavarne implicazioni diverse, sembra dunque più corretta la formula che vede la preesistenza degli italiani all’Italia (unita), rispetto alla celebre formula adespota ‘fatta l’Italia bisogna fare gli italiani’. Ma si trattava, e per molti interpreti si tratta ancora, di una Italia a più culture, a più “nazioni”; d’altronde la nazione non è solo quella nazionalisticamente costruita nell’Ottocento europeo e latinoamericano. I risorgimentali, seguiti coerentemente dalle culture liberali postunitarie e poi dalle nazionalistiche, si avvalsero dell’uomo “italiano” esistente, e legittimante l’atto unitario, ma lo vollero trasformare nell’individuo ideale, nel civis ovunque identico, dello stato-nazione. “Bisogna fare gli italiani” è, nel suo significato meno banale, un profondo errore diagnostico e prognostico. In realtà era vero, e accadde, l’inverso. Peccato che anche di questa formula (dati gli Italiani fu fatta l’Italia) si dia subito una versione deprecatoria; l’Italia “costruita” sarebbe stata un fallimento, zavorra di cui sbarazzarci.
Dagli Italiani all’Italia, ai “nuovi italiani” e/o alla “Nuova Italia”. Una contraddizione tra fatto fondante e idealità cancellanti, tipica delle borghesie liberali urbane. Una visione a mio avviso selfdefeating che estirpa il fondamento storico-culturale della stessa azione unitaria, analoga a quella che sta caratterizzando in questi decenni la “costruzione” astratta, e fallimentare, di un Europa che invece esiste già, da non annullare ma da cui (tutta) partire.
b. Di tale contraddizione è espressione conseguente, anzi esemplare e ancora cruciale, la tentata decattolicizzazione dell’Italia unita, perseguita in molti modi dalle élites liberali postunitarie che cercarono di protestantizzare gli italiani, dalle culture socialistiche e dai nazionalismi che li vollero atei o fedeli di una religione civile (progetti cui la soluzione pattizia del 1929 mise obiettivamente fine).“Fare gli italiani” ha significato, infatti, e significa per molti sottrarli alla formazione e al sentire cattolici, alla storia. Sulla storia cattolica dell’età moderna (XVI-XVII secolo) furono così proiettate le radici e le responsabilità, etiche e politiche, intellettuali e sociali, di ogni male d’Italia. Sulla scorta delle polemiche illuministiche e della controversistica protestante, di molto precedente.
La frattura tra il presente-futuro della “Nuova Italia” e il suo passato moderno (in cui, talvolta, l’eredità di De Sanctis fa includere anche la “decadenza” civile e morale del Rinascimento!), e la condanna del passato cattolico negli istituti di memoria degli Italiani, sono la rivoluzione operata dal nostro Risorgimento. Se il Risorgimento fu una “rivoluzione mancata”, o al massimo una rivoluzione (con deliberato ossimoro) moderata, questa alterazione eversiva della memoria culturale, essenziale all’identità comune e al comune sentire della Patria, vi fu certamente.
c. Prima delle “due Nazioni” generate dalla guerra civile del secondo Risorgimento vi è, dunque, la frattura sprezzante, e l’incomunicabilità, tra due narrazioni identitarie, quella della continuità civile e cattolica delle singole “nazioni” italiane preunitarie, persistente nell’opposizione cattolica dell’Italia unita, e quella della discontinuità proclamata dalle élites del nuovo Stato-Nazione, che si alimentavano di una volontà pura di Nation building. O meglio: la narrazione della discontinuità salva la continuità della Nuova Italia con la sola memoria di ogni minoranza eretica, di ogni vittima dei poteri politici e religiosi preunitari.
Ma anche questa narrazione, di nuovo presente nella reviviscenza di studi e polemiche sugli eretici italiani del Cinquecento (che siano loro “la migliore cultura italiana che trovava ospitalità fuori d’Italia” evocata da Prosperi tempo fa?) o sul caso Galileo, appartiene alla storia della volontà decattolicizzante delle élites laiche; perché non è certo sull’eredità “eretica” dei Sozzini o del Renato, di Savonarola o di Galileo, che si costruiscono gli istituti di uno stato moderno. Ma vi si definiscono degli istituti di memoria, come io li chiamo, con exempla che dovrebbero polarizzare il sentire comune, e fondare l’amor di Patria.
Finché questa pretesa, e utopia dualistica, di “nuova nascita”, di reformatio (la “riforma intellettuale e morale”), non verranno autocriticamente accantonate (anche nelle loro versioni moderate, subìte dal cattolicesimo liberale), è mia pertinace convinzione che la dominante discontinuista della nostra memoria identitaria, così contraria ai fatti (come armonizzare la deprecazione dell’età moderna, controriformistica e barocca, col mirabile arredo urbano, sacro e civile, dei centri storici, scenario dei nostri passi quotidiani?), farà avvertire estrinseca e inerte, impolitica, ogni celebrazione dell’Unità e dei Risorgimenti.
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