Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.

martedì 31 maggio 2011

L’Italia è unita, soprattutto dai vizi

L’Italia è unita,
soprattutto dai vizi

La patria sotto accusa, dai pamphlet di Del Boca e Aprile all’ironia di Luca Sofri.
Rondolino dice che non siamo una nazione ma dimostra l’opposto.

di Aldo Cazzullo
11 maggio 2011

Accade raramente di leggere un saggio ben scritto e ben argomentato, goderselo sino all’ultima pagina, e alla fine dissentire del tutto dalla tesi, sintetizzata dal titolo: L’Italia non esiste. Eppure è quanto si prova di fronte al libro di Fabrizio Rondolino, che Mondadori manda oggi in libreria (pp. 264, € 17,50).

Non esiste la bandiera, non esiste l’inno, non esiste la politica, non esistono le classi dirigenti, non esiste la sinistra, non esiste lo Stato. E non esiste neppure la nazione. «L’Italia è un’espressione geografica », come la definiva sprezzante Klemens von Metternich. «È una graziosa penisola purtroppo in gran parte rovinata dagli italiani», compresi, par di capire, Brunelleschi e Piacentini, Leon Battista Alberti e Borromini. Va da sé che l’unità d’Italia sia «la più grande catastrofe abbattutasi sulla nostra penisola ». Ma «chiunque sia stato una volta nella vita a Cosenza e a Varese - o in qualsiasi altra coppia di città distanti almeno trecento chilometri tra loro - sa benissimo che l’Italia non esiste». Poi però, dopo l’invettiva iniziale, comincia il libro. Che dimostra in realtà come l’Italia esista eccome, e sia più unita e unificata che mai, sia pure dai vizi piuttosto che dalle virtù.


Rondolino rilegge tutti gli scrittori civili che hanno denunciato la mancanza di virtù civica e politica degli italiani: Dante e Leopardi, D’Azeglio e Prezzolini; Machiavelli, ancora animato da una visione alta della politica, più che Guicciardini, ormai rassegnato all’impossibilità di «cambiare le condizioni del tempo». Depreca lo spirito anti italiano con cui gli intellettuali di ogni secolo hanno vituperato il loro Paese, a cominciare dai torinesi di nascita o di formazione, Gobetti e Gramsci. Ma poi si unisce lui stesso al novero, demolendo le corporazioni, le élites, la Controriforma, i gesuiti, il Risorgimento, la famiglia, la mamma, la Chiesa, la Madonna, insomma tutto quanto concorre a definire l’identità italiana, dai valori agli eventi negativi, compresi il fascismo - «da noi non fu seria neppure la dittatura » - e la mafia, definita «il grande contributo degli italiani alla storia delle organizzazioni sociali». Rondolino è talmente posseduto dalla sua polemica, condotta in modo colto, elegante e divertente nell’amarezza, da non rendersi conto di stare tracciando il ritratto di un Paese più unito, uniforme, omogeneo che mai. L’Italia forse non esiste sul piano dell’efficienza dello Stato e della fiducia nella politica come leva per trasformare la società, riformare l’esistente, cambiare le cose (ma in quale Paese, dopo il fallimento dell’ingegneria sociale di Lionel Jospin e il brusco ridimensionamento di Barack Obama, sopravvive una tale concezione della politica?).

Certo però l’Italia esiste sul piano del costume, delle abitudini, del modo di vivere. L’influenza della Chiesa, la volgarità della televisione, la sconfitta storica del Piemonte sabaudo a vantaggio dell’Italia mediterranea, l’eclisse dei liberali e la spocchia della sinistra: Rondolino ha ragione su tutta la linea. Ma ciò non toglie che questo impasto di bellezza e di vizio sia oggi più amalgamato che mai. Che siano esistiti italiani di frontiera, da Cavour a De Gasperi, i quali alla guida delle loro generazioni - le generazioni del Risorgimento e della Resistenza, nelle varie forme che la Resistenza assunse - seppero unire e riscattare il Paese. E che oggi, come si è visto il 17 marzo, gli italiani siano più legati all’Italia di quanto noi tutti, Rondolino compreso, amiamo riconoscere. Eppure la vena anti italiana è stata di gran lunga dominante in questo 150˚compleanno. Terroni di Pino Aprile ha germinato una replica nordista, identica fin dalla forma grafica, Polentoni di Lorenzo Del Boca. Contro il Risorgimento si sono espressi Giordano Bruno Guerri e il cardinale Biffi, un giornalista di sinistra come Giovanni Fasanella e uno di destra come Gigi Di Fiore, neoborbonici per cui il Risorgimento fu di troppo e neomazziniani per cui il Risorgimento non fu abbastanza (è la logica del Noi credevamo di Martone e del romanzo di De Cataldo, I traditori, annunciato nella quarta di copertina come «il lato oscuro del Risorgimento»).

Anche il saggio di Luca Sofri (appena pubblicato da Bur, pp. 188, € 10) ha un titolo - Un grande Paese - solo in apparenza consolatorio. In realtà, sostiene Sofri, «un grande Paese è la definizione che vorremmo poter dare dell’Italia, senza che ci scappi da ridere». Però, a differenza di Rondolino, che ritiene l’Italia immodificabile e chiude il suo libro raffigurandola apocalitticamente come un Titanic che giace da un pezzo sul fondo dell’oceano gelato, Sofri si pone il problema di come sarà il nostro Paese tra vent’anni, e di chi lo cambierà.

Lavora quindi sulle riflessioni della contemporaneità: Michele Serra, Goffredo Fofi, Antonio Polito, Alessandro Baricco. E giunge alla conclusione che l’individualismo italiano non è senza riscatto, che «pensare a un Noi non implica inevitabilmente una vocazione minoritaria. Sono le dimensioni di quel Noi a dire se la vocazione è minoritaria o maggioritaria, e soprattutto le dimensioni che a quel Noi vogliamo dare»: solidarietà, amore per il prossimo, vicinanza agli oppressi, fiducia nella possibilità di una politica diversa. Al punto che il libro, molto critico sull’Italia di oggi, si chiude con un ideale discorso di un presidente del Consiglio nel 2031, che pare davvero l’Obama italiano: «Possiamo farcela. E lo faremo ».

Tratto da : www.corriere.it/

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