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Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.

mercoledì 20 aprile 2011

Si incolpa il passato per difficoltà che riguardano il presente

Polemiche : L'alibi del «Risorgimento fallito»
Nonostante i continui attacchi, i valori dell'unità nazionale restano irrinunciabili.
Si incolpa il passato per difficoltà che riguardano il presente

Giuseppe Galasso
18 aprile 2011

Nei termini oggi correnti si può ben parlare di «Risorgimento negato». Perché? Se ne afferma il «fallimento» come cosa scontata. Se ne disconosce la legittimità storica, come imposto con la forza, da esigue minoranze intellettuali e ideologiche, a popolazioni ignare e riluttanti. Si dice che l'unità nazionale italiana è stata una forzatura, e che l'estensione del principio nazionale all'intera Italia fu un'invenzione risorgimentale, rispondente non a un vero spirito e pensiero nazionale, bensì alla «ideologia italiana»: arbitraria costruzione, per l'appunto, ideologica, ossia di falsa e falsata coscienza, tornata a pro del solo Piemonte, che sovvertì e sottomise gli altri Stati pre-unitari. E si potrebbe continuare.

Marcio il seme, ancora più marcio il frutto. Allo Stato nato dal Risorgimento si fa prima a dire che non viene riconosciuto quasi nulla di buono che a elencare le colpe e i vizi ad esso addebitati. Nell'antifascismo e dopo il fascismo si esaltavano i «valori del Risorgimento», ma senza molte specificazioni. Si era, inoltre, aperta già allora una discussione critica e negativa della storia italiana: tutta un fallimento, stretta tra un rozzo opportunismo e conformismo («Franza o Spagna») e uno storico, deteriore condizionamento (inefficienza, corruzione, doppia morale, formalismo, inquisizione... insomma Spagna e Chiesa): quasi una gigantografia del giudizio di Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana sull'Italia dal Rinascimento in poi. Solo che in De Sanctis alla «decadenza» seguiva il «rinnovamento», mentre il quadro tracciato alla caduta del fascismo era tutto negativo (nell'Antistoria d'Italia di Fabio Cusin il fascismo era quasi una vocazione storica degli italiani).

Poi venne la lunga stagione del «gramscismo» (che non fu la stessa cosa che Antonio Gramsci), con il suo giudizio, molto legato alle vicende e alle lotte post-1943 e limitativo, se non negativo, sui frutti del Risorgimento. Il gramscismo via via si dissolse, già con le polemiche liberali degli anni Cinquanta e Sessanta, poi con le grandi tesi di Rosario Romeo sullo sviluppo industriale in Italia. La sua eredità attuale è marginale, ma il giudizio negativo sull'Italia unita è rimasto.


Le celebrazioni del 1961 videro, comunque, una generale convergenza e consenso, con poche dissonanze, certo anche per lo slancio e il progresso dell'Italia di allora. Invece, con la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, si è giunti a una revisione del Risorgimento e, ancor più, a un vero processo all'unità, con evidenti aspetti politici (non dovuti, però, solo alla Lega Nord). Si tratta, infatti, più che di un problema storico, di una crisi dell'identità e della coscienza nazionale in tutti i loro aspetti, che coinvolge e travolge molto di più del Risorgimento e dell'unità. Ed è, anche, fenomeno non solo italiano, bensì europeo (si pensi alle «negazioni» della rivoluzione francese o dell'idea di nazione), ma per l'Italia, dato lo spessore della sua crisi, di misure e implicazioni ben più radicali.

Siamo passati così dal Risorgimento fatto più contro i contadini e le classi popolari che contro Austria, Chiesa e conservatori, al Risorgimento fatto contro gli italiani, specie del Sud, con larghe nostalgie per la vecchia Italia (tranne che per lo Stato pontificio!); e siamo pure passati a una sensazione negativa per la storia del Paese e delle sue varie parti, ben più diffusa delle critiche degli anni Cinquanta e Sessanta.

E, tuttavia, pare che, sia pure così, del Risorgimento si stia acquisendo una maggiore percezione, anche storico-emotiva. Sono, intanto, venuti meglio in luce quei «valori del Risorgimento», prima enunciati, ma non molto esplicitati, perché dati per noti e impliciti: indipendenza e unità (strettamente connesse), libertà (la «libertà liberatrice»), modernità (economica e sociale, della cultura e dell'istruzione), Stato laico e senso dello Stato.

Il Risorgimento è fallito? Certo, lo Stato è sempre un mastodonte affannoso, c'è il dualismo, c'è tanto altro che non si vorrebbe né vedere, né sentire. Ma resta il grande successo, che ha portato il Paese fra i dieci più avanzati del mondo e ha costruito uno Stato col quale sono incomparabili, nell'idea e nel fatto, quelli pre-unitari. Certo, stiamo ancora costruendo l'Italia, ma gli italiani c'erano, e ci sono oggi, molto di più, per cui, se difficile fu fare l'unità, molto più difficile appare il disfarla.

Il Risorgimento è lontano, non parla più agli italiani di oggi, dicono vari storici. Ma già Romeo nel 1961 aveva postulato per l'Italia post-fascista una soluzione di continuità col Risorgimento. Il che è poi normale: non passa invano un secolo e mezzo.

Un secolo e mezzo è, però, anche una bella durata, che ha collaudato e legittimato la nuova Italia. E, infatti, il problema non sono il Risorgimento e l'unità; siamo noi. Il «Risorgimento negato» è un più fedele specchio non del passato, bensì di un problematico e negativo presente. Abbiamo scaricato e scarichiamo su quel passato i problemi di oggi e le relative responsabilità. Certo, abbiamo altri valori, oltre quelli risorgimentali, né si poteva, anche in ciò, restare al 1861. E poi c'è l'Europa, la globalizzazione. Ma è lecito credere che per l'Italia i valori risorgimentali formino tuttora un nocciolo duro irrinunciabile e insostituibile, prioritario rispetto a tutto, anche se nulla ora indica che la stagione del «Risorgimento negato» stia per finire.


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