Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.

martedì 14 dicembre 2010

Italia 2011, polvere di patria

Italia 2011, polvere di patria

di Walter Barberis
03 ottobre 2010

Lo spirito nazionalistico del 1911 e l'ottimismo del 1961 sono scomparsi. Più che alla celebrazione, i 150 anni dell'Unità invitano alla riflessione.A sei anni dalla prima edizione torna in libreria il saggio di Walter Barberis Il bisogno di patria (Einaudi, pp. 141, e10). Anticipiamo uno stralcio della nuova introduzione.

I prossimi mesi saranno verosimilmente testimoni di una ricorrenza di parole orientate a ricordare l'anniversario dei 150 anni dell'unità d'Italia. Fra queste parole, patria, come sinonimo di comunità nazionale, magari con qualche scivolamento verso un nuovo concetto di cittadinanza, potrebbe riprendersi un certo spazio nel discorso pubblico.


È ovvio che le celebrazioni comportino il rischio di un uso retorico della lingua; ed è più che probabile che significati ormai desueti di un termine come patria possano cumularsi insieme a una più aggiornata connotazione di senso. Certo è che il 2011 non potrà ripetere intonazione e contenuti dei discorsi celebrativi diffusi nel 1911 o in occasione del centenario del 1961.

Semplicemente, la nostra epoca non è in sintonia né con gli ardori dello spirito nazionalistico e dinastico che segnò gli anni che precedettero la Prima Guerra mondiale, né con l'ottimismo degli anni del boom economico e della trasformazione degli italiani in fiduciosi neofiti di una società dei consumi. Anzi, i nostri sono tempi in cui pare serpeggiare un accentuato disincanto nei riguardi di un discorso pubblico che faccia leva su sentimenti di appartenenza a una comunità nazionale.
Questo esplicito scetticismo riverbera, semmai, la tendenza a rivalutare quelle dimensioni e tradizioni locali che a non pochi padri della patria erano parsi i limiti di una compiuta unità istituzionale. La cinta municipale e l'ombra corta del campanile sempre più di frequente tornano a definire l'area degli sguardi individuali e il raggio d'azione di interessi particolari e privati; è logica conseguenza che ne soffra quella visuale di più lunga gittata, cioè nazionale e sovrannazionale, che pareva fino a pochi anni or sono una acquisizione scontata.

D'altra parte, ogni epoca interroga il passato con la richiesta di una risposta utile al presente, o in ogni caso consonante con lo spirito del tempo. E oggi corre il tempo in cui conciliazione, condivisione e concertazione sono termini d'uso corrente, a significare soprattutto che, a partire dai principali attori politici ed economici fino ai corpi sociali più periferici, gli elementi di divisione e di discordia sono spesso prevalenti su quelli connettivi ed inclusivi. Dunque, è assai probabile che il richiamo alla data fatidica del 1861 non infiammi i sentimenti dei più; e che allora, auspicabilmente, si presti almeno ai toni della riflessione se non a quelli della celebrazione.

Non è un mistero, peraltro, che il corso di questi 150 anni di esperienza unitaria sia stato ricco di acquisizioni, ma anche segnato da fenomeni antichi e recenti che non hanno veramente cooperato alla formazione di una coscienza pubblica e nazionale. Fin dagli anni cruciali che hanno inaugurato l'unità, lo Stato italiano ha dovuto fronteggiare qualcosa di più forte di una semplice controversia sulla forma di governo. Del disagio a sottostare a una nuova istituzione centrale sono state sintomatiche ed esemplari le insorgenze nel Mezzogiorno, parte aurorale di una «questione meridionale» che ha attraversato tutto il Novecento come una formula rituale.

Per altri versi, la grande industria, quella che aveva portato l'Italia fra le prime cinque potenze del mondo, si è gradualmente dissolta; e con essa è scomparsa la grande fabbrica fordista, il luogo imponente che aveva affiancato nel lavoro milioni di persone, convenute dai quattro angoli della Penisola in quel Nord che aveva fisicamente e culturalmente contribuito alla integrazione di italiani diversi. Ora, le mille piccole e medie imprese, che sono la base virtuosa e l'ossatura forte della nostra economia, sono anche la manifestazione di un capitalismo pulviscolare che non agisce più come decisivo fattore aggregante.

Come nuovi pionieri, i produttori delineano traiettorie individuali, tratteggiano la mappa di interessi puntiformi, costituiscono i nodi di una rete estesa, dinamica, ma non inclusiva. In questa rete, oggi, rimangono impigliati i più fortunati fra coloro che vengono in Italia a cercare strade nuove. E sono proprio questi nuovi soggetti a ricordarci che la storia italiana è stata anche storia di migranti: quei 29 milioni di uomini e donne, che hanno lasciato città e paesi del Nord e del Sud in poco meno di un secolo, spesso riscoprendo la loro italianità giusto al momento di integrarsi in una comunità d'origine in terra straniera. Sono loro, le loro memorie e le loro storie di vita a cui forse dovremmo guardare oggi, ripensando alle modalità di accoglienza dei nuovi immigrati e alle nuove frontiere di una adeguata, comune cittadinanza. Su questo difficile terreno, spesso, è parsa camminare più speditamente la Chiesa. Ma a sua volta, la Chiesa, il soggetto più radicato nel tessuto plurisecolare della storia italiana, è tornata ad essere fonte o occasione di ulteriori contrasti.

Non a caso, tuttavia, questa che viene avvertita come una esorbitanza dai confini della propria sfera di azione da parte della Chiesa è l'occupazione di spazio che fino a non molto tempo fa era quello della politica: lo spazio dei partiti, vituperati senza superarne lo spirito di fazione, sostituiti da nuove formule organizzative ed elettorali, e già rimpianti. In effetti, sciolti in generiche correnti di opinione, nebulose e dagli incerti riferimenti morali, quei partiti hanno lasciata ineguagliata la capacità di riferirsi a tradizioni e insieme a prospettive di futuro. Quello spazio pubblico e aperto, quella piazza, spesso fisica, con il suo selciato e le sue quinte architettoniche, era il luogo del confronto pubblico, e naturalmente dello scontro: ma lì gli italiani, divisi dalle opinioni e dalle scelte di campo, erano però uniti da analoghe pratiche di partecipazione e da un comune interesse per la cosa pubblica, dalla stessa voglia di un domani, per quanto orientato a soluzioni diverse. Quello spazio politico è stato un luogo di avvicinamento, dove le passioni si sono lambite favorendo l'incontro e il confronto fra le persone.

In una Italia toccata in profondità dalla sua inclinazione a frammentarsi, a dividersi in fazioni fino a polverizzarsi, la dissoluzione di quello spazio ha lasciato dietro di sé l'indifferenza dei più, la privatezza delle prospettive, l'operatività apparente e virtuale della piazza televisiva. È un dato di fatto che negli ultimi anni, i lampi di una coscienza nazionale, il senso di appartenenza a una comunità, siano apparsi raramente, in occasione di una importante manifestazione sportiva o nella contingenza di qualche avvenimento luttuoso. Lasciando la parola «patria», non senza vaghezza, a echeggiare distratte forme di solidarietà alle nostre forze armate, impegnate su fronti di guerra in inedite missioni umanitarie e di peacekeeping.

Come figli di una famiglia senza armonia e senza memorie, gli italiani si sono spesso cresciuti da soli, superando la solitudine con cinismo, con opportunismo, con diffidenza, talvolta con esibizionismo. Ignorando le ragioni e l'utilità di una salvaguardia dell'interesse generale. È così che l'idea di patria si è di volta in volta caricata di significati che invece di tendere all'unità hanno accentuato visioni faziose, volte all'esclusione. Oppure è stata un'idea semplicemente rifiutata, rimpiazzata da snobistici atteggiamenti di eccentricità, di distanza dai comportamenti di altri popoli e di altri Paesi. Come se la mancanza di un'idea di comune appartenenza fosse un sicuro vantaggio, di per sé un requisito di modernità. Come se non contassero antiche comunanze di lingua, di religione, di arti, di letterature, di industrie; oppure, come se evadere il fisco, sottrarsi ai doveri civici, vivere di raggiri della norma e dei codici fossero altrettante prove di avanzamento civile.

Tratto da : www.lastampa.it/

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