Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.

lunedì 28 febbraio 2011

17 marzo, riti e modernità

17 marzo, riti e modernità

Dalla Lega a Durnwalder, così i «nemici» hanno aiutato a rendere il 17 marzo una ricorrenza vera

di Beppe Severgnini
20 febbraio 2011

Indro Montanelli sosteneva che a Bossi, un giorno, avremmo dedicato monumenti nelle piazze italiane, di fianco a quelli di Giuseppe Garibaldi. Lo considerava, infatti, un patriota involontario. Esaltando l'inesistente Padania, la Lega ci ha obbligati a ragionare sull'Italia esistente.
Fingendo di disprezzare la nazione, ha risvegliato il nostro sentimento nazionale (poco a tanto che sia). A Umberto Bossi ha dato una mano Roberto Calderoli. Uno e l'altro persone più ragionevoli di quanto vogliano far credere: lo prova il fatto che la Lega s'è tenuta lontana dalla violenza. Definendo «una follia costituzionale» la festa nazionale del 17 marzo, il ministro della Semplificazione - nomen omen - ne ha decretato il successo.


Il nostro tribalismo è talmente radicato che, per combinare qualcosa, dobbiamo trovare un avversario. Il 150° dell'Unità si trascinava tra comitati comatosi, mostre periferiche e i discorsi eccitanti come tisane. Gli avversari dell'epoca - gli austriaci, la Chiesa cattolica - sono buoni amici dello Stato italiano. La sinistra, a lungo sospettosa del tricolore, oggi lo sventola con convinzione. Uno sbadiglio gigantesco stava per coprire l'anniversario. Ci hanno pensato l'altoatesino Luis Durnwalder e l'europarlamentare Mario Borghezio: un monumento anche a loro, per favore. Il primo ha spiegato che «il gruppo linguistico tedesco non ha nulla da festeggiare»; il secondo ha distillato perle di saggezza radiotelevisiva. «Il festival di Sanremo è una festa padana», ha spiegato a Radio 24. Poi, turbato dall'inno all'inno (di Mameli), ha cambiato idea: «Benigni? Peggio di Ruby. Fa semplicemente schifo il prostituirsi di un artista alle esigenze della retorica di una parte del Paese contro l'altra».

A questo punto, direi, è fatta. Il 17 marzo si avvia a essere una vera festa, nuova e sentita. Tenessimo i negozi chiusi, potremmo approfittarne per pensare. Un'attività che non ha conseguenze immediate sul prodotto interno lordo; ma non fa mai male. Potremmo trovare, per esempio, un modo originale di celebrare insieme un giorno fondamentale della nostra storia comune. Il 25 aprile è la festa del sollievo, il 2 giugno il sigillo di una decisione civile, il 4 novembre la commemorazione di una vittoria militare. Il 17 marzo dovrebbe essere il ricordo gioioso di un momento epico (diciamolo: non sono molti, nella nostra storia).

Epico: come la rivoluzione francese, l'indipendenza americana, la vittoria inglese contro i nazisti. L'Italia a metà dell'Ottocento era rock. Andate a Pavia, visitate la mostra «Le università erano vulcani». Guardate i ritratti dei fratelli Cairoli - quattro su cinque caduti per la patria che sognavano - e vedrete ragazzi italiani: stesse facce, stessi occhi, stesse espressioni. La casa della mamma Adelaide - piazza Castello, angolo strada Nuova - era la base di Garibaldi in una città che Ugo Foscolo aveva infiammato, anni prima, declamando «O italiani, io vi esorto alle storie perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare...». Un riassunto folgorante della nazione di ieri e di oggi.
Una nazione che Roberto Benigni sembra aver svegliato, uscendo prepotentemente dal recinto dei Five Millions Club (i cinque milioni di italiani che acquistano i quotidiani, leggono qualche libro e discutono di questi temi). Venti milioni di telespettatori sono tanti. Ma ricordiamoci che siamo una nazione specializzata in buone intenzioni che quasi mai riusciamo a trasformare in buoni comportamenti (anche perché ora non ce lo chiede più nessuno, mentre prima ce lo chiedevano nel modo sbagliato).

Ringraziare Benigni e Bossi, idealmente uniti nel loro diverso patriottismo, è un buon punto di partenza. Ma non basta. Bandiere ne abbiamo sventolate molte; balconi ne abbiamo addobbati; fasce tricolori ne abbiamo viste tante, di traverso a petti non sempre meritevoli. Il rischio di rivedere il già visto, giovedì 17 marzo, è forte.
Perché non portare allora una coccarda tricolore, quel giorno? Francesi, inglesi, tedeschi e americani, in occasioni particolari, mettono all'occhiello bandiere, distintivi e papaveri. È un segno collettivo che denota una scelta personale: le bandiere si guardano, una coccarda s'indossa. I leghisti di stretta osservanza non lo faranno? Non è un problema. Loro, come abbiamo visto, aiutano in altro modo.

Tratto da : www.corriere.it/

sabato 26 febbraio 2011

Non si celebra l’unità d’Italia dimenticando i Savoia

Non si celebra l’unità d’Italia dimenticando i Savoia

Dal “Corriere della Sera” La lettera del giorno
30 gennaio 2011

Ho letto con sottile piacere «Lettere al figlio» di Lord Chesterfield, manuale educativo in forma epistolare che dà uno spaccato ineguagliabile della vita inglese ed europea del 1700. Ma davvero questo libro è stato il vademecum educativo dei rampolli delle classi abbienti di tutta Europa per molti decenni?
Cesare Cerri


Risponde Sergio Romano

Caro Cerri, Nell’Inghilterra della seconda metà del ’700 le lettere che Chesterfield indirizzò al figlio, al figlioccio e ad altri personaggi del tempo, ebbero per il suo Paese l’importanza che il «Cortegiano» di Baldassar Castiglione ebbe nel Cinquecento e nel Seicento per l’Italia e per l’Europa. Alla loro reputazione giovò anzitutto la statura e la fama del personaggio: una grande famiglia, una impeccabile educazione umanistica, una lunga frequentazione delle corti europee, un brillante servizio pubblico a corte, in Parlamento e al governo, i buoni risultati ottenuti in alcuni negoziati internazionali e la saggia amministrazione dell’Irlanda di cui fu Viceré dal 1745 al 1746. Al figlio, principale destinatario della sue lettere, Chesterfield raccomandò le regole di un galateo adatto soprattutto a giovani di buona famiglia, dotati di una considerevole fortuna e destinati al servizio dello Stato. Gli suggerì di spendere liberalmente ma saggiamente, di avere una stabile relazione amorosa e di scegliere il migliore maestro di ballo. Fu questa probabilmente la ragione per cui un grande erudito inglese, il dottor Samuel Johnson, disse di Chesterfield, sprezzantemente, che insegnava «la moralità di una prostituta e le maniere di un maestro di ballo ». Ma il suo giudizio fu ingiusto e forse dettato da una certa irritazione per la condiscendenza con cui era stato trattato da Chesterfield quando cercava finanziamenti per la compilazione del suo grande «Dizionario della lingua inglese». In realtà le lettere al figlio insegnano soprattutto moderazione, autocontrollo, senso dell’equilibrio, distacco dalle passioni e dalle emozioni. Appare così sulla scena inglese un personaggio elegante, altero, ironico che verrà definito sommariamente «snob». Ma certe manifestazioni di snobismo sono lo scudo con cui l’uomo di qualità attraversa le burrasche della vita, insomma una versione moderna dello stoicismo. Quando era ormai vecchio, sordo e confinato nella sua casa, Chesterfield disse di sé: «Sono morto da due anni, ma ho scelto di non darne comunicazione ». La serietà della sue raccomandazioni è dimostrata da una lettera del 1749 scritta al figlio mentre questi si apprestava a visitare Berlino e Torino. Gli disse di approfittare del soggiorno nella capitale prussiana per studiare attentamente lo stato delle forze armate e le riforme legislative introdotte dal Grande Federico, «senza dubbio il più capace dei principi europei». E per la tappa a Torino gli suggerì di fare visita a «the next ablest monarch to that of Prussia», al monarca che per capacità veniva subito dopo quello della Prussia. Era Carlo Emanuele III, figlio di Vittorio Amedeo II e re di Sardegna dal 1730 al 1773. Federico e Carlo Emanuele appartenevano alle due famiglie - Hohenzollern e Savoia - che poco più di cento anni dopo avrebbero unificato la Germania e l’Italia. La lettura di Chesterfield dovrebbe ricordarci che non si celebra l’unità d’Italia dimenticando Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II.

Alleanza Monarchica - Stella e Corona: Il 17 marzo, esponiamo la Bandiera Italiana

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mercoledì 23 febbraio 2011

Monarchici in Rete: Che festa la festa !

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giovedì 17 febbraio 2011

L'Unità e la festa - Dibattito bislacco

L'Unità e la festa
Dibattito bislacco

Lettera al Direttore del quotidiano “Il Mattino” 12 febbraio 2011

Trovo del tutto inutile la polemica innescata dalla dichiarazione della Marcegaglia che vorrebbe lavorare il giorno del 17 marzo, anche se questa Italietta non merita grandi festeggiamenti.
Il 2011 per effetto del calendario sarà uno degli anni più avari di feste messe nei posti strategici, per poter essere combinate per formare i tanto sospirati ponti. Uno o due giorni festivi infrasettimanali negli anni buoni generavano una raffica di giorni di assenza dal lavoro tali da dare un assaggio di ferie.
Gran parte degli italiani ha smesso di lavorare attorno al 20 dicembre e ha ripreso il 10 gennaio, molte aziende hanno scelto questa chiusura lunga perché i portafogli ordini erano particolarmente magri.
Capirei questa voglia di racimolare ore di lavoro se per il 2011 ci fosse la concreta possibilità di un aumento del Pil del 10%, non è così. Nelle feste natalizie ben 15 giorni infrasettimanali sono stati promossi a festivi, a loro confronto le 8 ore perse del 17 marzo sono ben poca cosa.

Giuseppe Peroni - Carmagnola (TO)


Caro Peroni,
questo della Festa per il 17 marzo è diventato davvero un pasticcio. Il solito gioco del bar sport all’italiana in cui il primo che si sveglia dice la sua. Ogni giorno arriva un nuovo demagogo che ci ammannisce la sua lezioncina civica su ciò che sarebbe meglio: e allora, festa sì, festa no. Solo quest’anno, ma non i prossimi, e così via. Mi chiedo che senso abbia un dibattito così bislacco, di cui il Consiglio dei ministri dell’altro giorno è stato lo specchio fedele.
Primo. Se crediamo all’Unità d’Italia come valore, per quanto suscettibile di dibattito e interpretazioni storiche, celebrarlo sia giusto e sacrosanto. Se poi, per una volta, riuscissimo a fare quel passo in avanti da Paese normale che si riconosce attorno ad un atto fondativo da cui, comunque e nonostante tutto, è partita la nostra storia di Nazione, questo sarebbe un bel successo.
Secondo. Il governo dovrebbe avere una voce sola sulla proposta di istituire la Festa. E finora, a parte le chiare parole del sottosegretario Letta, è mancata la voce del Presidente del Consiglio e una sua parola finale sull’argomento.
Terzo. Il problema non è se fare vacanza o mandare gli studenti in libera uscita quel giorno. Semmai proporrei di non tenere regolare lezione il 17 marzo, sostituendola con conferenze dibattiti assemblee dedicate a discutere apertamente.
Quarto. Dietro il lavorare o meno si nascondono, ipocritamente, ben altri argomenti. Chiare le riserve della Lega che legge nell’anniversario una minaccia alla sue tesi secessioniste. Meno chiaro il no della Marcegaglia che paventa una perdita per le casse delle imprese. Se dovesse diventare questa una questione dirimente, proporrei di limitare alle scuole la giornata libera, con le condizioni indicate prima.
Tutto il resto è da Strapaese, come ha scritto su queste colonne Giuseppe Montesano.
Speriamo che Giorgio Napolitano faccia pesare la sua parola, salvando in tempo un dibattito delirante in un’occasione unica. Prima che passino altri 150 anni.

mercoledì 9 febbraio 2011

Questa volta ci si diverte !

17 marzo ?
Buon compleanno Italia !

Il 17 marzo di quest’anno, tra cento polemiche e mille distinguo, sarà festa nazionale.
Fantastico direte Voi… neanche per sogno, non si era ancora diradata la nebbia di anni e anni di oblio che avvolgeva questa data che già gli “amici” corvi neri, detti anche “repubbli-cani” reclamavano che la data in questione gli ricordava troppo la Monarchia… bella scoperta, ma “se non era per un piccolo Re Savoia, l’Italia non si sarebbe fatta mai…” aveva scritto Montanelli. Comunque superato anche questo ostacolo di “forma”, ci si è messa la Marcegaglia a soffiare contro. Sarà che con Marchionne, il posto da prima donna l’ha perso da un pezzo, ha voluto cogliere l’occasione per farsi notare. Per me comunque, poteva cambiare da parrucchiere o paio d’occhiali, e si sarebbe fatta notare per un miglioramento estetico almeno, così invece s’è beccata pure dell’asino !


Non galvanizziamoci troppo comunque, lo sballo sarà solo per quest’anno, il prossimo torneremo ad essere semplici carcerati del regime in attesa della grazia presidenziale.
A proposito del Presidente, Giorgetto nazionale è tornato a stupirci tutti dopo l’acrobazia compiuta per lavarsi di dosso l’infamia comunista. Ha fatto sapere che il 17 marzo, dopo la visita di rito all’Altare della Patria, compirà una visita al Pantheon per rendere omaggio a Re Vittorio Emanuele II di Savoia… si proprio di Savoia, quello che ha fatto l’Italia, mica un Mazzini qualunque, e quello li chi se lo fila !
Comunque l’ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato, in veste di “porta moccolo” ufficiale della repubblica ha subito voluto puntualizzare che questo fatto, non vuol dire che altri aspiranti inquilini al Pantheon possano sperare d’avere il posto che gli spetta. Del resto la nostra non è una Nazione e soltanto un circo equestre che si da un tono per un giorno !
Comunque il dubbio che si riferisse a Berlusconi l’abbiamo avuto.
Sarà una grande festa ? Speriamo, potrebbe essere l’ultima occasione. Cosa avete capito, non per l’Italia, per me, ho quasi 50 anni, ed al prossimo giubileo tricolore non sarò più dei vostri.
Italia per fortuna è immortale… alla faccia dei duri e puri !
Viva l’Italia sempre !!!

La cicala salterina - 09.02.2011

giovedì 3 febbraio 2011

“Noi credevamo”, i gianduja di Martone

“Noi credevamo”, i gianduja di Martone
Presentare le armate risorgimentali come fa il regista Martone è ridicolo e offensivo.

Articolo di Aldo Cazzullo, pubblicato a pagina 17 del settimanale "Sette",
inserto del Corriere della Sera (n° 4 del 27 gennaio 2011).

La fiaccola accesa nell'antica Torino un secolo fa guida la lotta degli uomini dovunque: in Italia, negli Stati Uniti in tutto il mondo”, disse John Fitzgerald Kennedy nel marzo del 1961. L'America riconosceva che cent'anni prima l'Italia era ritornata tra le nazioni, rientrando nella storia e affermando valori universali: i diritti civili, la fine della monarchia assoluta, dei ghetti, del foro ecclesiastico, delle servitù feudali. Ma nei libri usciti per i 150 anni non c'è traccia di questo. Sono tutti “anti” e “contro”, parlano di “traditori” e di “lati oscuri”, esaltano Radetzky e i Borboni, gli austriaci e i briganti. Di film invece ne è uscito uno solo, Noi credevamo. 


Decisamente anti-risorgimentale, non da destra come i neoborbonici ma da sinistra; contro l'unificazione vera, reale, storica, in nome delle utopie tradite. Il film è noiosetto, come tutti quelli di Martone. Bella è la ricostruzione di alcune scene, che ricordano i quadri di Hayez. Ma il regista sceglie con cura i tre episodi più infelici del Risorgimento. La spedizione mazziniana in Savoia – contro l'unico Stato italiano dotato di un esercito – che non poteva riuscire e infatti non riuscì; per fortuna, altrimenti l'Italia non sarebbe mai nata. L'attentato di Orsini contro Napoleone III, che si era già impegnato a fare la guerra agli austriaci: altra “impresa” per buona sorte fallita, di cui peraltro il film omette l'unico raggio di speranza, la lettera in cui Orsini accetta la ghigliottina ma richiama l'imperatore ai suoi doveri morali verso l'Italia. Infine, l'Aspromonte, il fatto più triste, esercito italiano contro i garibaldini, sullo sfondo di un Sud insanguinato. Non è in discussione la libertà artistica. Non si pretendono celebrazioni. Ma presentare le armate risorgimentali, e in particolare i piemontesi, alla maniera caricaturale di Martone, è ridicolo prima che offensivo per la memoria di chi ci diede una patria. I bersaglieri sembrano tanti gianduja, parlano in dialetto torinese, ora sono sciocchi ora crudeli, ed entrano in scena esattamente con la stessa espressione – che non ho mai sentito pronunziare in 44 anni se non da Macario – con cui i Vanzina introducono i torinesi nel loro Vacanze in America . “Boja fauss!”. E dire che Martone conosce Torino, di cui dirige da anni il teatro stabile. Piemontesi, continuiamo così: facciamoci del male.